Dalla glaciologia dati più precisi per gli ecoscenari
Tra le priorità di analisi relative alle molteplici discontinuità che indicano un cambio di mondo in atto non dimentichiamoci quella relativa all’ecopolitica. Grazie alla ricerca glaciologica avremo un dato scientifico utile a precisare le dinamiche e fasi del cambiamento climatico, probabilizzarne i tempi e possibili impatti e quindi poter calibrare gli investimenti ecoadattivi per difendere la continuità produttiva ed abitativa dei sistemi sociali adattati ad un regime climatico del passato ed ora in mutazione.
Ho ricevuto da British Antarctic Survey (Bas) la notizia che il decennale progetto finanziato dall’Ue con presenza primaria del Cnr italiano e partecipazione di circa una decina di nazioni europee ha ottenuto un carotaggio del ghiaccio antartico da cui è ricostruibile il clima planetario da circa 1,2 milioni di anni fa al presente. Ora l’analisi chimica-fisica dei diversi pezzi di ghiaccio temporalizzati e disciolti verrà avviata in diversi laboratori europei con tecnologie innovative. Ma ne scrivo ora prima che i risultati siano disponibili perché in un convegno di fine settembre i ricercatori della Bas hanno lanciato un allarme: lo scioglimento dei ghiacci è più rapido di quanto ipotizzato e conseguentemente l’aumento dei livelli del mare e dei fenomeni meteo estremi.
Sono saltato sulla sedia come mi capitò nel lontano 1988 quando feci parte del gruppo di consultazione per il Segretario generale dell’Onu, coordinato dal Presidente della statunitense National Academy of Science Frank Press, per la creazione di una politica globale di prevenzione e mitigazione dei disastri naturali (UN-IDNDR) e gli scienziati dell’atmosfera e climatologi individuarono il rischio di inabitabilità delle coste e delta fluviali che avrebbe colpito il 70% della popolazione mondiale causa un aumento di circa 7 metri del livello del mare. Come economista dissi subito, con calcoli carta e matita, che spostare tale massa di popolazione e produzioni avrebbe avuto un effetto depressivo catastrofico e che quindi bisognava terraformare il confine terra/mare per difendere la continuità degli insediamenti antropici.
Ma chiesi, per l’analisi dello sforzo di investimento: quattro, tre, due secoli o uno? Le risposte oscillarono tra i quattro e due secoli, con alcuni scienziati che già ai tempi insistettero per una decarbonizzazione accelerata, costi quel che costi. Risposi che bisognava stare attenti alla divergenza tra sostenibilità ambientale ed economica, considerando che ci voleva oltre un secolo per abbandonare la dipendenza dai combustibili fossili. Il tema restò aperto in attesa di dati che facessero capire il ciclo naturale dei cambiamenti climatici combinato con l’effetto serra, da cui capire problema e soluzione. Tra un po’ questi dati arriveranno.
Ma la mia sensazione è che dovremmo anticipare almeno calcoli e scenari perché gli investimenti ecoadattivi vanno spalmati nel lungo periodo e richiedono una preparazione molto complessa delle ingegnerie e della politica: accelerazione del nuovo nucleare, nuove tecnologie di dissalazione e di grandi lavori di terraformazione nonché di gestione dei flussi alluvionali e di contenimento della desertificazione. Suggerisco ai colleghi economisti di contattare il Cnr per la convergenza tra scenaristica climatologica e finanziaria.
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