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Carlo A. Pelanda
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IL PUNTO

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8/12/2024

La sicurezza richiede un’economia della deterrenza

Trasformare la necessità in opportunità. A molti non piacerà, ma li invito a pensare in modo realistico e non illusorio interpretando correttamente il cambio di mondo in atto: il riarmo con obiettivo di superiorità ha lo scopo di dissuadere poteri aggressivi dall’uso della forza. E’ una necessità. Ma sul piano economico è un costo. E lo è soprattutto per le nazioni europee che per decenni si sono debellicizzate perché protette dall’ombrello di sicurezza statunitense. Ora e nel futuro questo non potrà essere così esteso perché l’America, pur restando prima superpotenza militare nel globo, non ha più la scala né la volontà (causa il costo sociale elevato) per presidiare da sola tutto il pianeta e nemmeno tutta l’alleanza delle democrazie: dovrà concentrarsi su alcuni geoteatri a rischio di diventare caldi e su alcune nazioni con capacità competitrici globali, Cina in particolare senza dimenticare Russia, Iran e Corea del Nord e loro proxy. Il calcolo del costo economico per gli europei non solo per difesa del loro perimetro comune, ma anche per renderli esportatori di sicurezza sia da soli sia come alleati nel G7 e nazioni convergenti, mostra volumi di investimento finanziario tanto importanti da porre un problema di cannoni che riducono il burro. Pertanto mi sembra razionale iniziare la ricerca sia in Europa sia in Italia su come trasformare i cannoni in burro.
Da tempo il mio gruppo di ricerca ha studiato l’effetto economico degli investimenti di potenza militare durante la prima Guerra fredda per avere una base storica utile a capire il fenomeno nelle democrazie in relazione ai segnali che anticipano una seconda. In America il trasferimento delle tecnologie militari di punta, pur più o meno degradate, al mercato civile ne ha potenziato in modo decisivo la competitività tecnologica che a sua volta ha reso espansivo il ciclo finanziario indotto: pur lungo mediamente circa 10 anni l’intervallo tra spesa pubblica militare ed esito espansivo nel mercato privato, via trasferimento tecnologico, alla fine la spesa militare stessa (pur con alto livello dissipativo) si è rivelata un enorme stimolo economico con conseguenze di ricchezza diffusa. La stessa analisi sull’Unione sovietica ha mostrato che la produttività sistemica della spesa militare richiedeva un vasto sistema di imprese private come moltiplicatore entro un modello industriale liberalizzato e concorrenziale che però non esisteva nel modello comunista. Un’analisi simile fu fatta dal leader cinese Deng Xiaoping nel 1978 quando iniziò a liberalizzare gradualmente – pur mantenendo il controllo politico del Partito comunista sul processo - l’economia cinese con lo scopo di ottenere potenza militare, ma senza rischiare il collasso economico: ci riuscì. A metà degli anni 90 il Pentagono si rese conto che la Cina nel 2024 sarebbe diventata un competitore dell’America sul piano delle capacità tecnologiche e avviò programmi innovativi. Questi furono rallentati dall’eccesso di spesa militare deviato verso le operazioni contingenti dal portafoglio degli investimenti futurizzanti a causa della guerra contro il terrorismo avviata nel 2001. Infatti ora non è chiaro di quanti “anni tecnologia” la Cina sia rimasta dietro l’America, ma la sensazione è che non siano tanti. In sintesi, l’alleanza delle democrazie ha un problema.
Soluzioni? Quella geopolitica migliore sarebbe isolare la Cina, anche staccando la Russia (e Corea del Nord) da essa, ma è ancora solo un tratteggio. Quella diplomatica può tenere sotto soglia l’aggressività cinese, considerando che la Cina soffre di sovracapacità e regressione dello sviluppo ed è pronta a mostrarsi temporaneamente tranquilla per non perdere export, ma non a fermare il movimento espansivo di Pechino, per esempio per la conquista del Sud globale. Pertanto la diplomazia ha bisogno di avere un sostegno più forte sul piano della deterrenza e dissuasione militari. L’America, infatti, si sta concentrando su tale scopo. Ma la Cina ha una strategia di impegno dell’America su fronti multipli  per indebolire via dispersione il potenziale proiettivo statunitense. Per tale motivo realistico l’America preme su europei e giapponesi affinché aumentino le proprie capacità di difesa e di deterrenza dell’alleanza complessiva. Infatti c’è un’ipotesi iniziale di Nato globale, ma ancora lontana con l’eccezione del progetto di caccia di sesta generazione (Gcap) tra Londra, Roma e Tokyo. Per inciso, questo ha probabilità di produrre decine di innovazioni poi trasferibili al mercato civile, in particolare robotica. Semplificando, gli europei devono accelerare.

Come? Programmi militari industriali comuni con adeguato livello di investimento non possibile se solo nazionale. Già da decenni ci sono, ma devono essere futurizzati, integrati ed ampliati. Così come dovrà essere futurizzata, integrata ed ampliata una forza militare all domain europea entro la Nato. Da un lato, la confederalizzazione europea è un oggetto remoto e (per me) da valutare con prudenza. Ma, dall’altro, l’integrazione industriale ed operativa degli europei sul piano militare è una priorità. Che va vista con ottimismo perché ogni nazione ha una sua specialità nel settore – l’Italia spazio, aerei, navi, droni sub – produttiva di vantaggi economici e di capacità complementare per il complesso. Inoltre, ha un’industria civile vasta ed evoluta che potrà moltiplicare la conseguenza economica della diffusione di supertecnologie. Etica? Come padre preferisco vedere i miei figli al sicuro grazie a deterrenza piuttosto che bombardati o impoveriti da debolezza geopolitica.

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