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Carlo A. Pelanda
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Lettere a CP del 2023

16/2/2023
San Vendemiano, 16.2.2023

Preg.mo professore,
ho letto con estremo interesse il suo intervento odierno su ilsussidiario.net
Mi consenta quindi di poter condividere con lei alcune riflessioni.
I presupposti da cui Lei muove sono ineccepibili.
La riduzione dell’attuale stock di debito pubblico è “conditio sine qua non”per attivare politiche di stimolo fiscale efficaci e perduranti.
Io stesso ritengo che una strategia di “nazionalizzazione” del debito sia inutile (se non addirittura controproducente) in difetto di libertà di conio.
Sono invece meno prevenuto rispetto alle operazioni che lei definisce “patrimonio contro debito”: e questo per ragioni filosofiche, connesse all’accezione, un po’ “perversa”, che si tende a dare del “debito pubblico”. In quest’ultima grandezza si trovano infatti compresi tutti gli stock di risparmio privato che, generazione dopo generazione, gli italiani hanno trasferito al loro Paese per dotarlo di quella invidiabile potenza infrastrutturale che ha fatto dell’Italia una delle maggiori potenze industriali del mondo. Una sorta di “capitale sociale” nell’accezione etimologica del termine, cioè il “capitale della società”. Patrimonio demaniale, ospedali, scuole, caserme, immobili di vario tipo, strade e autostrade, acquedotti, gasdotti, elettrodotti, reti telefoniche e dati, partecipazioni societarie, …. C’è di tutto e di più.
E ritengo anche che la proprietà “nazionalizzata”e diffusa di questo “capitale sociale” sia invero assai più strategica e democratica che non il possesso di bond irredimibili.
Quel che immagino è quindi una sorta di “conferimento” del summenzionato “capitale sociale” in un “fondo (veramente) sovrano”, che dovrebbe essere gestito con criteri apolitici, aconfessionali e manageriali (ma questo, purtroppo, è un altro discorso….).
Le quote del fondo conferitario andrebbero offerte in sottoscrizione dallo Stato a soli investitori privati nazionali (perimetro al di fuori del quale non dovrebbero non sarebbero cedibili) e dovrebbero essere irredimibili per decenni; a tale riguardo, la sua stima a 70 anni mi sembra più che ragionevole.
Lo Stato, ovviamente, dirotterebbe il ricavato della sottoscrizione delle quote del fondo ad immediato abbattimento dello stock di debito pubblico.
Il fondo non sarebbe facoltizzato a indebitarsi finanziariamente, né a impegnare il patrimonio in operazioni finanziarie oltre una soglia percentuale (molto bassa).
Le mie stime (che non sono simulazioni, non potendo contare su modelli econometrici raffinati) mi portano a ritenere che l’operazione potrebbe attestarsi sui 600-650 milioni di euro. Dotato di un tale patrimonio, il fondo potrebbe ragionevolmente generare “a regime” una quarantina di miliardi di revenues, da destinarsi alla copertura di eventuali perdite, all’efficientamento, al mantenimento e alla Capex della dotazione iniziale. Eventuali eccedenze potrebbero essere rigirate allo Stato (al netto d’un congruo compenso) poiché le destini a ulteriori abbattimenti di debito.
Mi si eccepirà che un’operazione di questo tipo assomiglia molto (troppo?) ad un haircut del debito attraverso un’imposta patrimoniale. Ed in effetti non vi si discosta di molto, se non per il fatto (a mio avviso essenziale) che per una volta lo Stato non prende, ma “scambia”, e rinomina più correttamente le poste passive del proprio bilancio.
Potrebbe altresì sembrare che in questo modo venga traslato sui cittadini l’onere di “ricomprarsi” lo Stato, dopo che i loro antenati già avevano sostenuto questo onere. Anche qui assento: è esattamente così. Ma tertium non datur, o sostenere un sacrificio enorme (per una volta non “a fondo perduto”) o perire nella certezza che analogo enorme sacrificio ci sarà tosto o tardi richiesto, ma in cambio di nulla.
Sarebbe senza dubbio la più grande operazione finanziaria della storia patria e richiederebbe un immane sforzo finanziario, legale e comunicativo.
Ma potrebbe essere la soluzione definitiva, oltre la quale non vedo orizzonte.
Voglia gradire i miei saluti e la mia stima.

dott. Andrea de Vido
Senior Partner
16/2/2023

Buongiorno, dottore.
Ho appena letto, sul Sussidiario, il suo articolo con il quale ipotizza interventi per tagliare il debito pubblico.

Mi inserisco nel suo ragionamento, intervenendo con una proposta nel menu delle modalità meritevoli di approfondimento.

Premessa: nel bilancio dello Stato il patrimonio culturale italiano (Colosseo, Templi di Paestum, Pompei, etc.) non è computato, come se avesse valore Zero. Trattasi, evidentemente, di falsa rappresentazione della realtà.

Ebbene, io credo che, senza ancora considerare gli introiti di questi Beni Culturali (biglietti, diritti d'immagine, etc ), se ne trascuri tra l'altro il loro valore come "bene-rifugio".

Se durano da secoli, essi sono considerati certamente Valori affidabili.

Attraverso la "tokenizzazione", i suddetti beni potrebbero essere frazionati in quote virtuali e venduti sul mercato. Il "token Colosseo n. 0001/10000", opportunamente certificato (registro blockchain), sarebbe simile a moneta/oro. Elon Musk, Madonna, Chiara Ferragni: possedere un "token Colosseo" potrebbe diventare un obbligo socio-culturale.

Legge e contratti assicurerebbero, ovviamente, che nessun diritto si genera in capo al possessore di token circa la gestione materiale del Bene Culturale: tale apparente limite sarebbe ovviamente anche una garanzia - necessaria e graditissima per tutti, tokenisti inclusi - circa il fatto che i Beni Culturali Tokenizzati sono destinati a durare ancora per secoli o millenni.

Il Debito Pubblico sarebbe abbattuto. I Token sarebbero trasferibili sul mercato. Non "creazione" di valore, ma "rilevazione" sul mercato di un valore già esistente.

Che ne pensa?
Un cordiale saluto.
Dario Ciccarelli

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