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Carlo Pelanda: 2020-8-9La Verità

2020-8-9

9/8/2020

Il governo sta finanziando la crisi invece di risolverla

In attesa dei dettagli, le misure economiche di agosto, e precedenti, mostrano un difetto grave: provvedimenti dissipativi ed inefficaci, nonché incompleti, invece di azioni mirate per fornire risorse e facilitazioni esattamente dove servono e quindi con maggiore probabilità di produrre efficacia combinata con risparmio di denaro, considerando che questo è a debito. Pur nel poco spazio di un articolo, vediamo quale sarebbe un’impostazione tecnica alternativa e migliore.

I dati mostrano che nell’economia italiana si possono sintetizzare quattro categorie. Prima: aziende che mediamente vanno bene o che comunque hanno avuto una ripresa rapida in maggio e giugno – notevole il rimbalzo dell’export - e che, nell’insieme, sono proiettate verso una buona crescita. Chi scrive si avvale il più possibile di dati provenienti da tecniche di “nowcasting”, cioè di analisi delle tendenze in tempo reale che integrano le statistiche riferite a situazioni di mesi prima, particolarmente utili in fenomeni economici discontinui. Al momento, in questa categoria del sistema produttivo c’è il 45% circa del complesso produttivo nazionale. Se così, il dato utile per il decisore politico è che il motore produttivo principale dell’economia italiana si è rimesso rapidamente a girare. L’emergenza non è generale, ma solo settoriale.  Seconda: aziende micro, piccole e medie che galleggiano colpite sia dalla pandemia sia dalla tendenza recessiva del 2019, ma mediamente con possibilità di restare o tornare “in bonis” attraverso una ripresa della domanda stimolata da investimenti statali in infrastrutture e costruzioni, facilitazioni normative e fiscali e garanzie creditizie. In questa categoria c’è circa il 30% del sistema produttivo. Terza: aziende di scala diversificata, per lo più di servizi, in crisi massima o perfino totale per le restrizioni cautelative: qui c’è circa il 15% potenziale del Pil italiano, è vera emergenza e serve una terapia intensiva. Quarta: le grandi imprese rilevanti per la quantità di indotto ed occupazione o già in crisi precedente o colpite dalla pandemia: qui è a rischio tra il 5 ed il 10% del Pil nazionale.

Sarebbe più corretto fare una classificazione per settori e in questi delle aziende in migliori e peggiori condizioni, divise per territorio. Ma alla fine uscirebbe una matrice con le 4 categorie qui abbozzate che differenziano i tipi di intervento, permettendo di allocare con precisione le risorse e gli atti normativi. Per far andar meglio la prima categoria bastano facilitazioni fiscali (in particolare per la digitalizzazione), una politica estera/commerciale pro-export e, soprattutto, norme che favoriscano l’acquisizione e fusione di aziende meno competitive da parte di quelle che lo sono di più. Il piccolo non è bello, pur competitiva la flessibilità dello stile industriale italiano, e bisogna permettere ad almeno circa 3.000 aziende piccole-medie, che possono, di rafforzarsi per poi in prospettiva quotarsi nella Borsa italiana, rendendola tra le più grandi al mondo e, soprattutto, motivo di trasferimento – ora quasi nullo - maggiore dell’enorme risparmio italiano nell’economia reale nazionale. Qui non servono soldi, né cassa integrazione, ma nuove norme mirate e intelligenti. La seconda categoria richiede, semplificando, una grande stimolazione della domanda attivando in tempi rapidissimi programmi statali e locali di nuove infrastrutture e di riqualificazione, nonché messa in sicurezza, del territorio. Qui l’emergenza è storica/strutturale e non di causa pandemica. La terza richiede un pacchetto di aiuti a fondo perduto alle aziende danneggiate dal blocco, simile al risarcimento, prudentemente da calcolarsi in una prima tranche di sei mesi, poi da rivalutare. E non pioggia di sovvenzioni micro ai consumatori, uno spreco inutile. La quarta richiede un intervento proprietario e temporaneo dello Stato per mantenere servizi e produzioni rilevanti per la quantità di indotto e per interessi strategici. Questi sono in atto per Alitalia, Ilva, ecc., ma dovrebbero essere più rapidi, più carichi di capitale di investimento e in deroga temporanea, ma decidibile nazionalmente e non via permesso europeo, dei regolamenti Ue su aiuti di Stato e concorrenza, fatto conseguente alla dichiarazione di emergenza nazionale, ma non coerentemente applicato.

 In prima stima macro, un’allocazione mirata delle risorse secondo questa classificazione costerebbe meno della spesa complessiva annunciata vagamente dal governo e produrrebbe più crescita, occupazione e, soprattutto, fiducia, scongelando le decine di miliardi che gli italiani stanno risparmiando da marzo per paura del futuro a favore della ripresa dei consumi interni. Numeri conseguenti? Sinteticamente, un rimbalzo del Pil 2021 di circa l’80% in relazione a quello 2019 mentre ora è previsto circa il 50%, ipotizzando una ripresa pur lenta del mercato globale. Come? Mirando, appunto: per esempio, la cassa integrazione andrebbe solo dove serve, risparmiando risorse per stimolazioni che darebbero più lavoro ad aziende in difficoltà e più soccorso a quelle costrette all’apnea. Un po’ il governo lo ha capito, ma differenzia questo costoso strumento in base alle perdite subite dalle imprese nel primo semestre mentre dovrebbe calibrarlo in base alla situazione corrente e valutando le proiezioni in base a censimenti istantanei. Per gap di competenza nel governo e di modernizzazione tecnologica e metodologica degli apparati, per appropriazioni a fini partitici e/o personali nonché per la ricerca di scambi elettorali, l’Italia sta sprecando, in prima ipotesi, almeno il 40% delle risorse utili alla ripresa, soprattutto, impiegandone la gran massa in allocazioni improduttive e assistenziali. Il punto: il governo sta finanziando la crisi invece di risolverla. A voi la conclusione.

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