La nuova rivoluzione tecnologica è già un presente e non un futuribile. Questa, diversamente dalle precedenti, sta producendo cambiamenti nel mercato misurabili in anni e non in decenni. Ciò avviene perché la rivoluzione è trainata dalla tecnologia dell’informazione – reti, (semi)intelligenza artificiale, automi, ecc. – che fornisce un’ efficienza enormemente superiore a quella del recente passato a qualsiasi operazione produttiva, comunicativa, logistica, commerciale, ecc. Per tale motivo l’adeguamento delle unità economiche alle nuove tecnologie è irrinunciabile: chi non lo fa andrà fuori mercato perché sostituito da chi lo farà. Tale consapevolezza, per esempio, ha spinto in Italia il programma “Industria 4.0” di incentivi straordinari alla trasformazione tecnologica del sistema produttivo. Ma in tutte le nazioni dove l’adeguamento è in atto sta emergendo una preoccupazione: la nuova superefficienza tende a ridurre l’impiego di operatori umani. Questa alimenta soluzioni passive: dare un salario “di cittadinanza” ai disoccupati, magari finanziato da una tassa sui robot come proposto da Bill Gates. Tali idee stanno prendendo piede e diventando offerta politica, in particolare nelle nazioni europee dove la crisi recessiva non è ancora risolta, ma la rivoluzione tecnologica inizia a modificare il sistema economico. Per questo è importante contrastare subito la soluzione assistenzialista. In realtà, la rivoluzione tecnologica distrugge le occupazioni con minore competenza e genera nuove opportunità per chi è competente. Il problema è la conoscenza. La soluzione è aumentarla nella società e non assistere una massa di incompetenti, cioè trasformare i deboli in forti invece di lasciarli deboli. Due dati: in Europa le aziende stanno cercando centinaia di migliaia di lavoratori con competenze adeguate, in particolare alfabetizzazione informatica, e non li trovano; molti senza lavoro cercano di formarsi per accedere alle nuove competenze. In sintesi, la domanda di lavoro con più competenza sta crescendo e la gente l’ha capito, ma non trova sistemi di formazione continua ben organizzati e un programma di finanziamento statale per sostenerli durante il periodo di (ri)formazione. In conclusione, servono certamente soldi, ma per investire sul potere cognitivo delle persone e non per lasciarli vegetare passivi. Poiché ci sono dubbi che la politica organizzi rapidamente un “welfare di investimento” per adeguare la società alla rivoluzione tecnologica sarebbe utile esplorare come attivare sistemi privati di (ri)qualificazione dei lavoratori.