Decine di think tank si stanno scervellando per rispondere alle richieste di scenari relativi alla possibilità del Califfato mesopotamico sunnita (Isis) di innescare una destabilizzazione dell’intera regione. Quello coordinato dal rubricante è stato ingaggiato con la missione di individuare ciò che gli altri osservatori non vedono. La prima ipotesi, che i ricercatori stanno testando via simulazioni, è che la statualizzazione del Califfato tende a favorire di più una soluzione, in prospettiva, di stabilizzazione che non una di caos. Tale ipotesi, che potrebbe sconcertare, fa riferimento ad un modello di risoluzione-congelamento dei conflitti basato sull’equilibrio del terrore nel contesto dello scontro principale tra sciiti (iraniani) e sunniti (sauditi e dintorni) che fornisce il perimetro geografico alla regione interessata, includendo la Turchia. I centri strategici sunniti e sciiti guerreggiano tra loro non direttamente, ma attraverso entità influenzate o controllate. L’offensiva sunnita contro il regime siriano alleato dell’Iran ha avuto fino a qualche mese fa il vantaggio di apparire come un movimento dei buoni che si ribellano ai cattivi, mescolandosi con i (pochi) reparti dei primi, e, soprattutto, quello di non avere una precisa territorialità. Ora il regime, grazie agli interventi degli Hezbolla libanesi ed agli aiuti militari russi, ha respinto le milizie jihadiste sunnite. Pertanto queste sono state costrette a cercare altrove la vittoria, trovandola, grazie all’alleanza con i sunniti irakeni ex-baathisti, nella conquista dell’area settentrionale dell’Iraq e nella sua trasformazione, includendo una parte della Siria, in stato geograficamente precisato. Il punto: ora sono un bersaglio mentre prima erano più sfuggenti. In particolare, sono un bersaglio per l’unico tipo di guerra che l’occidente è in grado di fare e dove ha superiorità assoluta: quella aerea. Oltre a diventare bersaglio, lo jihadismo sunnita mesopotamico ha perso anche il vantaggio morale per le pulizie etniche ed i genocidi perpetrati. Questo è un vantaggio per l’Iran: (a) gli sciiti irakeni, tipicamente divergenti da Teheran, ora ne dipendono; (b) l’Iran viene chiamato a limitare l’espansione del Califfato ed in questo c’è un primo riconoscimento della sua massima ambizione di essere considerato potenza regionale stabilizzatrice; (c) cosa accettata di fatto dall’America quando ha condiviso con le aviazioni iraniana e sciita-irakena la lista dei bersagli, per salvare i Peshmerga curdi, ottenibile solo via satelliti. La centrale strategica sunnita non potrà sostenere e difendere troppo un Califfato delegittimato. Pertanto tutte le nazioni dell’area collaboreranno, alcuni per limitare, altri per de-fanatizzare, il Califfato. La centrale sunnita, per avere un “cuneo” vicino ad Iran, Turchia, Libano e Siria residua, dovrà rendere il nuovo stato meno bellicoso, sostituendo l’attuale leadership. L’Iran dovrà dimostrare capacità stabilizzante per la sua ambizione di potenza regionale, dando una via d’uscita ai sunniti mesopotamici in forma di loro diritto ad uno stato. La Turchia, timorosa che si formi uno stato curdo, dovrà sia accettare il nuovo ruolo iraniano sia un nuovo stato sunnita ai confini, contribuendo a de-fanatizzarlo. Lo scenario è ancora sfumato, ma in sostanza sembra che la tendenza vada verso un equilibrio del terrore reciproco, la miglior stabilità ottenibile in questo momento storico. L’Italia? Ne stia fuori perché c’è un alto rischio di fare errori che comprometterebbero la stabilizzazione della Libia dove è necessaria l’alleanza con l’Egitto e con la centrale sunnita.