Purtroppo l’anno economico italiano sta finendo male. La produzione industriale ha avuto, a dicembre, una caduta notevole. Il ciclo economico internazionale e’ in fase di contrazione. In generale, le ultime stime portano a prevedere che la crescita del Pil, nel 2000, sia stata attorno al 2,6% . Meno di quel 2,8 – 3% che il governo riteneva risultato assicurato. Certo, quest’anno la crescita italiana e’ andata meglio che non nel 1999 (1,4%). Ma bisogna considerare che il ciclo economico globale e’ stato molto dinamico nel primo semestre (nel secondo, il prezzo del petrolio e la frenata della locomotiva americana lo hanno rallentato). Inoltre, l’economia europea ha goduto della forte svalutazione dell’euro che, pur pericolosa per il deflusso degli investimenti, ne ha favorito le esportazioni. Infatti gli altri paesi dell’area stanno spuntando un incremento del Pil o vicino al 3% o perfino superiore. In sintesi, gli andamenti del 2000 mostrano che l’Italia, per il nono anno consecutivo, cresce di quasi un punto percentuale in meno della media degli altri europei. Evidentemente c’e’ un problema strutturale nel nostro paese che tende a frenare endemicamente lo sviluppo. E’ inevitabile tenerne conto per cercare di prevedere gli andamenti del 2001. Vediamo questo aspetto prima di quello congiunturale.
Quali sono i fattori che deprimono strutturalmente il nostro potenziale di crescita? Il primo e piu’ importante - perche’ spalma dappertutto il suo effetto negativo - riguarda i carichi fiscali eccessivi sulle imprese. Sono di livello tale da pregiudicarne la competitivita’ internazionale e da far cadere l’incentivo per nuovi investimenti. La redditivita’ delle aziende italiane (l’utile dopo le tasse) e’, infatti, la piu’ bassa d’Europa. Gli imprenditori investono piu’ all’estero che in Italia in forma di acquisizioni o creazioni di unita’ produttive in paesi piu’ fiscalmente amichevoli. E nessuno dall’estero investe in attivita’ italiane proprio a causa della barriera fiscale. Per tali motivi la nostra base industriale si sta lentamente riducendo.
Il secondo fattore riguarda la rigidita’ e l’eccesso di protezionismo nel mercato del lavoro. Le aziende assumono poco perche’ poi e’ difficilissimo licenziare in caso di momenti brutti nel mercato. E cosi’ restano piccole.
Un terzo fattore di “gap tecnico”, poi, non rende disponibili sul mercato italiano i lavoratori per gli impieghi a piu’alta tecnologia. Gli ingegneri piu’ bravi volano in America perche’ li’ trovano piu’ opportunita’. Nessuno forma i tecnici specializzati. Le universita’ non sono connesse alle imprese a causa di ordinamenti borbonici che le vogliono indifferenti all’attivita’ produttiva nazionale. Quindi, oltre ai pesi detti, le aziende italiane soffrono di una difficolta’ maggiore di quelle negli altri paesi concorrenti per rifornirsi di conoscenza e tecnologia. Per tale motivo sono pochi e gracili i settori futurizzanti nel nostro sistema industriale.
Questi tre fattori spiegano perche’ da noi non riesce a formarsi, per motivi sostanzialmente politici, un tipo di impresa ad alta reddivita’, di grande scala e a forte vocazione tecnologica. Che sono i requisiti per essere concorrenziali nel mercato che si sta globalizzando. Infatti un numero crescente di nostre piccole e medie aziende tendono a perdere quote di mercato e i nuovi investimenti fuggono dall’Italia. Tale crisi competitiva strutturale e’ un freno costante alla crescita economica. E produce una lenta, ma inesorabile, deindustrializzazione.
Tali considerazioni forniscono primo parametro di fondo per prevedere gli andamenti economici italiani nel 2001. Se non cambia qualcosa, continueremo a crescere meno degli altri in caso di ciclo globale positivo. E la deindustrializzazione strisciante mangera’ un altro piccolo pezzo del nostro potenziale produttivo. Se il ciclo sara’ negativo, soffriremo di piu’ e perderemo un pezzo maggiore di struttura industriale a favore di altri concorrenti piu’ robusti. Numeri? Difficile darli a causa dell’incertezza sulle sorti della locomotiva americana nel 2001 e sulle sue conseguenze globali ed europee. Comunque, nel caso migliore – tenuta americana ed europea con ritorno degli investimenti grazie ad un recupero dell’euro - il prossimo anno potremo spuntare un 2% circa di crescita del Pil. In quello peggiore – breve recessione americana e stagnazione europea, andremo attorno allo zero. Queste cifre sono tratte da simulazioni - mie e di altri - che mantengono fisso l’attuale modello politico italiano ed il suo effetto frenante sull’economia. Se inseriamo nello scenario previsivo una defiscalizzazione sostanziale ed urgente per le imprese, immediatamente le simulazioni danno numeri molto piu’ ottimistici. Nel caso migliore, una crescita italiana di oltre il 3%, in quello peggiore comunque vicini al 2%. E dalla coda della classifica europea sul piano della crescita salteremmo comunque ai vertici della classifica.
Perche’? La deindustrializzazione italiana, fortunatamente, non ha ancora intaccato ne’ la cultura imprenditoriale ne’ distrutto le piccole e medie aziende. Le ha depresse, tenute miscroscopiche e poco competitive. Ma il potenziale e’ ancora integro. Anche la sola defiscalizzazione sarebbe in grado di risvegliarlo e da rimettere in moto gli investimenti e, con loro, una catena di conseguenze positive in breve tempo.
In conclusione, il 2001 si presenta ancora indecifrabile sul piano del ciclo economico globale, ma per l’Italia vi e’ una certezza. Se non cambia il modello politico andremo comunque male o maluccio. Se cambia, soprattutto sul piano fiscale, il paese ha ancora forza industriale sufficiente per uscire dalla palude in cui e’ finito negli ultimi anni. E da li’ iniziare con una nuova spinta ottimistica la complessa riforma di tutte le nostre magagne strutturali. Auguri a tutti noi che cio’ possa accadere.