La Germania ha la colpa principale della crisi di sfiducia che colpisce gli eurodebiti. Ciò non assolve l’Italia colpevole di disordine ed inerzia. Ma Roma non sarebbe in crisi se Berlino si fosse comportata in modo realistico e responsabile. Tale valutazione deve avere conseguenze.
La nuova questione tedesca non riguarda più, come fu nel passato, l’espansionismo tedesco in Europa. Ormai l’Europa è stata germanizzata a causa di un errore francese. Parigi ebbe paura che la Germania riunificata (1989) diventasse la potenza singola europea ed abbandonasse la diarchia con la Francia. Tale diarchia è un interesse vitale per la Francia in quanto le permette di (co)dominare l’Europa vista – in base alla dottrina De Gaulle del 1963 che, per inciso, costò all’Italia l’esclusione dal direttorio europeo a tre - come moltiplicatore della potenza nazionale. Per mantenere questa configurazione la Francia impose alla Germania di abbandonare il marco, cioè lo strumento della potenza nazionale tedesca, in cambio della rinuncia a costruire una coalizione antitedesca. Lo fece già nel 1989. La Germania accettò il concetto per evitare l’isolamento in Europa, ma posponendolo (Maastricht, 1992). Ma nel 1996 Berlino accettò di accelerare la nascita dell’euro per due motivi. Nel nuovo mercato globale, e dopo l’accordo Cina-America(Clinton) di quell’anno aveva bisogno di mostrare che dominava l’Europa per costringere il G2 sino-americano in embrione ad essere un G3 e grazie a questo difendere le sue esportazioni. Inoltre Kohl temeva che la seguente generazione di politici tedeschi sarebbe stata troppo nazionalista e che ciò avrebbe provocato l’ennesima controreazione alla Germania. La combinazione di questi due criteri, più quello di evitare che la potenza industriale italiana potesse usare la concorrenza valutaria, portò ad un modello di europeizzazione della Germania via moneta unica che in realtà era una germanizzazione dell’Europa. Berlino prese il dominio dell’Eurozona configurandola, tra il 1997 ed il 1999, in base ai propri criteri, in particolare: (a) meglio la recessione che un pelo in più di inflazione; (b) l’ordine economico è più importante dello sviluppo; (c) le nazioni che non riescono a mantenere questo ordine devono essere punite e non aiutate; (d) l’ordine economico è espresso in parametri senza necessità di un governo economico confederale che aiuti le nazioni a rispettarli. Ciò portò ad una architettura politica dell’euro molto fragile e depressiva. La Bce ebbe uno statuto con la sola missione di difesa dell’inflazione senza quella di stimolazione dell’economia e, soprattutto, di prestatore di ultima istanza. Mancò una politica economica europea finalizzata a bilanciare gli squilibri nell’Eurozona, rendendola vulnerabile agli shock asimmetrici e condannando le economie deboli al collasso. Diede all’euro una personalità deflazionistica (impoverente) e punitiva. Questa è la nuova questione tedesca: con tali criteri germanizzati l’euro non potrà continuare. Ne è prova il criterio imposto da Berlino alla Grecia: metà ti salvo, metà ti punisco. Quando il mercato ha visto un orrore del genere ha ridotto la fiducia su tutti gli eurodebiti, compreso quello tedesco. Ciò ha messo in crisi l’Italia, per contagio, senza motivo tecnico. Ma, soprattutto, ha creato un crisi bancaria, per la svalutazione dei titoli di debito posseduti dagli istituti come riserva, che sta riducendo il credito ed inducendo una recessione. Tutto questo sarebbe stato evitato garantendo i 360 miliardi di debito greco, cioè prima salvando ed eventualmente poi punendo. Ora il criterio tedesco costerà migliaia di miliardi di euro. Pare evidente raccomandare all’Italia, qualsiasi governo emerga dal caos corrente, di porre la questione tedesca in Europa, apertamente: o i criteri tedeschi vengono sostituiti con altri più realistici o per l’Italia sarà più conveniente uscire dall’euro.