La poca crescita sta diventando un vero problema. Ormai a tutti è nota la priorità del rigore, cioè del non aumentare più il debito pubblico per evitare che ne aumenti il costo di rifinanziamento fino a dover dichiarare l’insolvenza. Ma non sembra altrettanto noto che le politiche di stimolazione della crescita hanno analoga priorità. La stagnazione, dopo una crisi che ha fatto perdere all’Italia il 6% della sua ricchezza lorda in due anni, sta diventando fattore di impoverimento strutturale. Molte aziende non stanno reggendo tre anni di attività stentata con ripresa troppo lenta e non ripagheranno i debiti alle banche, queste sempre più costrette e riclassificare i crediti “incagliati” come “sofferenze”, cioè perdite in bilancio. Si cominciano a vedere i primi segni di una danno strutturale al sistema economico italiano, incluso quello bancario. Non c’è ancora il declino, le possibilità di rimbalzo sono intatte, ma non c’è più margine per continuare a far nulla sul piano della crescita. Ora non si può più scherzare.
Finora il governo ha scherzato con politiche dell’annuncio – la frustata – e sta continuando a farlo ammettendo riforme economiche solo se a costo zero e senza riduzione delle tasse, portando come scusa la priorità del rigore. In realtà è una presa in giro. E’ il sistema partitico che non vuole rinunciare al finanziamento degli apparati, alle migliaia di agenzie ed aziende pubbliche nazionali e locali, all’idea di avere un portafoglio discrezionale per incentivare l’economia, cioè il proprio potere via relazione di scambio. Tale partitismo esteso ed intrusivo impegna circa 70 miliardi all’anno (30 di trasferimenti, 40 di spesa inutile) che potrebbero essere usati per la detassazione stimolativa. Per capirci, se invece di prendere via fisco i soldi poi da dare a qualche impresa in forma di incentivo, se invece di finanziare con denaro fiscale l’agenzia di sviluppo tot, l’ente pinco e palle varie, se invece di mantenere la proprietà pubblica di aziende municipalizzate e dell’energia, ecc., si cancellassero queste erogazioni (e si mettessero sul mercato le aziende pubbliche) si potrebbero risparmiare molti denari di spesa pubblica ed aprire nei bilanci lo spazio per meno tasse, allo stesso tempo pareggiando entrate ed uscite. Potrei sbagliare sui numeri, non credo tanto, ma certamente non sbaglio nella soluzione: meno partitismo economico, meno tasse, più crescita perché più capitale verrebbe trasferito da impieghi improduttivi a quelli produttivi. Un soldo immesso nel sistema via spesa pubblica genera un soldo meno l’inflazione. Un soldo investito dal e nel mercato privato ne genera tre, se non di più. Ma chi convincerà il sistema partitico a fare così? Dovremmo farlo noi sui giornali, non possiamo chiedere ai partiti di suicidarsi spontaneamente rinunciando al loro parassitismo. Il come lo lascio alla competenza di Belpietro e Feltri, se così sentono. La mia è quella di indicare dove detassare per ottenere il massimo effetto nel minimo tempo. L’esempio della riforma competitiva fatta in Germania a cavallo del secolo, tra l’altro dal socialdemocratico Schroeder, ci è utile. Mettere al centro l’impresa, scaricarla di costi e caricarla di flessibilità. Da noi significa dimezzare le tasse aziendali, chiudere la cassa integrazione permettendo i licenziamenti e trasferendo il salario dei licenziati alla fiscalità generale, riducendo gli sprechi per fare spazio nel bilancio pubblico. Significa mantenere le garanzie, e ciò dovrebbe trovare il consenso dei sindacati realistici, ma facendo volare le imprese libere e leggere, con loro investimenti ed occupazione nonché consumi ed export. L’Italia è la seconda potenza manifatturiera ed esportatrice in Europa – quinta nel mondo – e solo la cecità ideologica o la vista corta del parassita impedisce di vedere che la soluzione di mettere le ali alle imprese per fare crescita è quella giusta.