In questi giorni è successa una cosa che non doveva succedere. Da circa un anno c’è un acceso confronto a porte chiuse tra diverse soluzioni al problema dell’insostenibilità dei debiti pubblici nella periferia dell’Eurozona. La delicatezza della questione è tale da consigliare a governi e Bce di mantenere riservati i conflitti in materia fino a quando emergerà una soluzione condivisa, nel frattempo comunicando che certamente la si troverà. Fin dall’inizio della crisi, in realtà, la Germania ha violato questo requisito di produzione della fiducia rendendo nota la sua ostilità a finanziare al 100% i salvataggi dei Paesi ormai di fatto insolventi: Grecia, Portogallo e Irlanda. E lo ha fatto per motivi elettorali interni, creando nel mercato un dubbio sui debiti delle nazioni deboli aumentandone così il costo di rifinanziamento e l’insostenibilità. Male, ma non irreparabile. Potrebbe, invece, diventare danno irreparabile l’esplicitazione della soluzione tedesca. La Germania vuole che la Grecia ed altri in difficoltà ristrutturino il debito perché insostenibile. La Banca centrale europea si oppone perché teme un contagio catastrofico. A questo punto, rotto il silenzio, dobbiamo prendere una posizione.
Il termine “ristrutturazione”, nel caso, significa insolvenza parziale: convertire i titoli di debito greci in altri garantiti da un fondo dell’Eurozona, ma con una perdita di valore. In teoria la mossa potrebbe funzionare se la perdita fosse contenuta entro i limiti, per dire, del 20%. Gli istituti finanziari hanno la capacità di recuperare questa perdita in due o tre anni usando i titoli di qualità migliore come base per prodotti finanziari ad alto rendimento. Ma quale percentuale di abbattimento dei valori, e quindi del debito greco, sarebbe efficace? Non meno del 30%, forse vicino al 50%. A tali livelli il sistema bancario internazionale che ha in pancia i titoli greci dovrebbe registrare una perdita netta e ciò accenderebbe l’effetto contagio, creando una crisi finanziaria globale. Pertanto, sul piano tecnico, la Bce ha pienamente ragione nell’opporsi totalmente all’idea tedesca. Ma la Germania ha immesso nell’analisi costi/benefici un criterio politico: gli elettori tedeschi non vorranno finanziare un debito greco insostenibile, cioè rendere disponibili denari per il Fondo europeo con la missione di acquistare titoli di Stati nei guai che il mercato non vuole comprare. Infatti la Germania ha ottenuto che tale fondo (500 miliardi) vada a regime nel 2013 dopo le elezioni politiche. Da un lato, è realistico temere tali posizioni nell’elettorato tedesco, anche considerando l’emergere di linguaggi simili in Finlandia ed altrove. Dall’altro, non è certo, e nemmeno probabile, che la soluzione detta venga accettata sia dagli elettori sia dal mercato. Appare probabile, invece, che una volta aperta una fessura di ristrutturazione per il debito greco si scateni la sfiducia su quelli di Portogallo, Irlanda, Spagna, Italia, Francia e, perfino, Germania stessa. Per poi estendersi fino a quelli giapponese e statunitense. L’unica garanzia contro questa crisi catastrofica è che il mercato sia certo che alla fine interverrà un prestatore di ultima istanza, banche centrali e governi, che pagherà le obbligazioni al valore facciale. Pertanto, costi quel che costi, gli eurodebiti non possono essere ristrutturati. Ogni nazione, piuttosto, dovrebbe ridurli vendendo patrimonio e facendo più crescita, nel frattempo aiutata da fondi straordinari internazionali. Per questo motivo dobbiamo sostenere la Bce contro la Germania. Ma anche predisporre in Italia soluzioni nazionali di rafforzamento della fiducia sul nostro debito, via riduzione del suo volume, perché non possiamo più fidarci dell’Europa dominata da una Germania la cui aquila è diventata una gallina senza testa, caotico pollaio.