L’Italia dovrà prendere una posizione di leadership nel Mediterraneo per difendere interessi di sicurezza, rifornimento energetico ed economici che sono vitali, non normali e sostituibili. L’export e l’ingaggio residente di nostre imprese nell’area è di tale entità da poter creare una grave caduta del Pil se vi fosse una destabilizzazione sistemica. Il governo, finora, ha dovuto usare molta prudenza per capire situazioni che si sono sviluppate a sorpresa, restare silenzioso per non compromettere la sicurezza di entità italiane, pur molto attivo e bene sul piano delle operazioni riservate. Ma ora è tempo di definire una chiara geopolitica economica e di prendere, pretendendola nei confronti degli alleati, per altro molto ambigui nel caso, una posizione di garante della stabilità per l’intero Mediterraneo.
L’essere un po’ in ritardo nel farlo ci sta già provocando parecchi problemi. Per esempio, non è chiaro se la decisione dell’Onu di sottoporre la Libia a sanzioni economiche riguardi i beni personali di Gheddafi o le istituzioni libiche. Questa ambiguità danneggia le imprese italiane che hanno come soci il Fondo sovrano e la Banca centrale libici e quelle che hanno siglato contratti con le entità statali. Desta sospetto che l’Onu somministri sanzioni ad uno Stato il cui governo precedente è stato già sostituito da altri soggetti. Il sospetto è che i nostri competitori geoeconomici nell’area (Francia, Regno Unito) vogliano utilizzare l’opportunità del cambio di regime per soffiarci le buone posizioni in quell’area ricca di petrolio. Più in generale, che qualcuno si dichiari “garante della stabilità mediterranea” serve a mettere un freno al rischio reale (contenibile) e percepito via media (eccessivo) di instabilità complessiva. Sarebbe sbagliato pensare che Algeria, Marocco, Arabia saudita e Giordania, con regimi piuttosto evoluti, siano in via di destabilizzazione e quindi da abbandonare sul piano delle attività commerciali e degli investimenti. Così come sarebbe sbagliato ritenere che Egitto, Libia e Tunisia non possano ritrovare ordine e che stiano per cadere nelle mani dell’estremismo jihadista. Ma sarebbe anche sbagliato pensare che tutte queste nazioni a possano restare o tornare stabili e capaci di contenere l’islamismo radicale senza aiuti e garanzie esterne, nonché condizionamenti per renderli capaci di diffondere più ricchezza e libertà. Cioè meglio capaci di ottenere il consenso da popolazioni in via di secolarizzazione, con desiderio di partecipare al capitalismo di massa e con problemi rivendicativi molto simili a quelli occidentali, ovvero salario e libertà di impresa. Spiace dirlo per la mancanza assoluta di stima, ma Obama ha fatto la scelta giusta nell’istruire i militari egiziani (e tunisini) a sostituire con dei golpe la testa dei regimi, ormai indifendibili per corruzione e repressione, per salvare i regimi stessi. Così come ha fatto bene nell’imporre al sovrano saudita di mettere in bilancio circa 40 miliardi di dollari per finanziare il consenso invece delle spese dissipative di centinaia di principini redditieri. Questa è la via giusta: sostenere i regimi arabi filo-occidentali, ma forzandoli a rispondere ai bisogni di una popolazione che chiede più dignità e occasioni di ricchezza proprio per evitare che lo jihadismo, che si sta organizzando pericolosamente, conquisti la loro mente per disperazione. L’Italia dovrebbe prendere questa linea e gestirla via una convergenza privilegiata con gli Stati Uniti, fatto che renderebbe credibile il ruolo di Roma come co-garante del Mediterraneo. Per fare cosa? Per: (a) ingaggiare più decisamente la Nato nel presidio dell’area; (b) creare un tavolo panmediterraneo di cooperazione economica con la missione di avviare le istituzioni di un mercato progressivamente integrato e relative istituzioni finanziarie.