La Bce ha cambiato posizione in relazione al rischio di inflazione. Fino a qualche settimana fa lo valutava remoto e ora lo ritiene imminente. Significa che in primavera potrebbe avviare un rialzo del costo del denaro. Tale scenario deve destare preoccupazione, forse perfino allarme, in Italia.
L’incremento dei tassi indurrebbe aumenti in tutto il ciclo finanziario. Il rifinanziamento del debito costerebbe di più, considerando che la spesa per interessi – su un debito di 1,8 trilioni di euro - già è sui 5 punti di Pil ogni anno. Crescerebbe il costo dei mutui a tasso variabile, togliendo alle famiglie il beneficio di meno spesa per questo scopo che ne ha attutito lo stress della crisi, nonché il calo dei consumi, nell’ultimo biennio. E crescerebbe il costo del credito. Inoltre è probabile che la percezione di un euro che si difende dall’inflazione in relazione ad un dollaro che lo fa – volontariamente – di meno potrebbe far rialzare oltre misura il valore di cambio del primo, così penalizzando le nostre esportazioni. In sintesi, il problema è che l’Italia avrebbe bisogno ancora di un anno, almeno, di un costo del denaro minimo e di un cambio non troppo sfavorevole per rimettersi un po’ a posto. E di un aumento dei tassi molto lieve per i due anni successivi. In caso contrario la sua ripresa sarà compromessa. Se, poi, l’aumento dei tassi in euro fosse marcato ciò alzerebbe di molto il costo di rifinanziamento degli eurodebiti e qualcuno di loro potrebbe rischiare l’insolvenza, accendendo un effetto contagio che arriverebbe fino al nostro o indurrebbe un rigore depressivo per evitarlo. Per capirci: l’inflazione e conseguente rialzo dei tassi per contenerla sta arrivando troppo presto, prima cioè di essere abbastanza robusti per sostenerne l’impatto. Cosa fare? La mia molta preoccupazione dipende dal fatto che non possiamo dire alla Bce “rischia un pelino di più inflazione, mantieni i tassi minimi ed il cambio basso” perché l’inflazione c’è. Non possiamo nemmeno dire all’America di alzare i tassi quanto l’euro, aiutandoci sul cambio, perché questa ci manderebbe a quel paese, rispondendoci, immagino: “noi per crescere dobbiamo rischiare inflazione, cosa che possiamo fare perché l’efficienza del nostro mercato interno la riassorbe piuttosto bene; fate in quella ciofeca socialista dell’Eurozona una riforma di efficienza (liberalizzazioni, più concorrenza, ecc.) e l’assorbirete meglio anche voi senza rompere le balle a noi”. Problema. Complicato dal fatto che l’inflazione sta crescendo non per eccesso di crescita, ma per aumento dei prezzi energetici e delle materie prime, tra cui quelle alimentari. Il fenomeno dipende in parte da fenomeni speculativi, che l’ultimo G20 ha deciso di contrastare, ma in parte maggiore dall’enorme domanda di tali beni da parte della Cina ed altri emergenti. Questo tipo di inflazione non è contenibile in modo calibrabile dallo strumento classico del rialzo dei tassi, ma può essere contrastato solo mandando in recessione l’economia per ridurre la domanda di combustibili. Uno potrebbe dire, allora, che l’inflazione in atto va contrastata prendendo il controllo militare delle fonti petrolifere per calmierarne i prezzi e spostandosi più velocemente su fonti alternative. E per quella alimentare la Ue dovrebbe togliere i limiti alle produzioni agricole aumentandone l’offerta globale per ridurne i prezzi. Ma non c’è segno che queste soluzioni siano in studio, nuove fonti a parte. Quindi i prezzi energetici ed alimentari saliranno, contagiando gli altri, inutilmente contrastati nell’Eurozona da un depressivo rialzo dei tassi e l’Italia dovrà subirlo. Come ridurne l’impatto? In teoria: (a) tagliando un parte del debito vendendo patrimonio; (b) liberalizzando e deburocratizzando tutto affinché un mercato crescente ed efficiente contenga e compensi l’inflazione. Ma, in pratica?