Il World Economic Forum è più una vetrina che un think tank effettivo, ma ogni anno il suo meeting – inizierà il 26 gennaio - sulle nevi svizzere di Davos-Klosters ha la capacità di registrare gli umori correnti nel mercato globale. Per questo merita attenzione e commento. La priorità percepita di quest’anno è quella di trovare regole condivise di governance globale. Sulla priorità sono, ed invito ad essere, più che d’accordo. Ma l’idea che il mercato mondiale possa essere organizzato via convergenza spontanea degli attori è irrealistica. Ed è un buon momento per criticare il “globalismo orizzontale” che ritiene possibile un governo effettivo del pianeta via composizione armonica degli interessi divergenti delle nazioni, per esempio il G20. Chi scrive è di scuola realistica e vede possibile solo l’ordine dall’alto, un “globalismo verticale”.
Il mercato globale è in realtà piramidale. Dalla fine degli anni ’40 al vertice c’è l’America con un modello basato sulla crescita interna (70% del Pil fatto da consumi) e sotto tutte le altre nazioni con modelli basati sull’export in America e/o verso altri che lì esportano. Tale configurazione storica ha incentivato le nazioni emergenti a svilupparsi massimizzando l’export più che la crescita interna. Prima, durante la Guerra fredda, Germania ed altri europei, Giappone, Taiwan e Corea del Sud, poi Cina, Brasile, ecc.. Ora l’America è troppo piccola per reggere tale sforzo. Nei primi anni del 2000 ha bilanciato questo problema gonfiando il suo sistema finanziario, pompato da tutti gli esportatori terrorizzati dalla prospettiva che riducesse l’import, ma ciò ha indotto una bolla poi scoppiata devastando il sistema bancario. Per inciso, questa è la vera causa di fondo della crisi finanziaria 2007/08 e conseguente recessione, l’avidità o la poca regolazione fatti secondari. Sul piano concettuale, il riequilibrio del mercato globale è semplicissimo: basta che ogni nazione dipenda meno dall’export inducendo più crescita nel mercato interno, aprendolo di più al commercio internazionale. Tutto andrebbe a posto se l’America non fosse più il solo pilastro della domanda globale e ne emergessero tanti altri. Ma ciò vorrebbe dire, nelle nazioni europee, Germania in primis, dimezzare tasse e spesa pubblica e liberalizzare il mercato del lavoro. Sangue nelle strade. La Cina, qualora lo volesse, non potrebbe farlo almeno per i prossimi 10/15 anni perché il suo sviluppo è trainato solo da investimenti ed export senza ancora un mercato interno strutturato, in un ambiente economico che resta statalizzato ed uno bancario opaco dominato da criteri politici. In sintesi, nessuna nazione esportatrice è pronta a riequilibrare il proprio modello interno per aiutare la stabilità di quello globale. E se non può e/o vuole farlo di che regolazione mondiale condivisa si parla? Non ne esiste altra. Infatti, nella realtà, l’uscita dalla crisi sta avvenendo ricostruendo il modello americocentrico, tutti sperando che l’America torni in boom e traini il resto dei vagoni, molti ottimisti perché già lo si vede negli scenari (verso giugno). Ma la continuità del vecchio modello senza innovazioni è insostenibile e porterà all’implosione del sistema. Se le nazioni emergenti non sono pronte ad essere attori primari e responsabili, allora l’unica soluzione è quella di rafforzare il vecchio modello integrando America ed Europa, dollaro ed euro, così creando un centro del mercato globale talmente grande e solido per capitale e forza militare da poter sia aiutare lo sviluppo degli altri sia imporre a tutti regole di equilibrio ed economia ordinata. Con questo non voglio irridere il globalismo orizzontale perché dialogare è sempre utile, ma desidero ricordare che per le cose serie, ed i soldi sono cosa serissima, ci vuole un impero. L’Occidente, se unito e se includesse la Russia, ancora lo sarebbe.