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Carlo Pelanda: 2011-1-18Libero

2011-1-18

18/1/2011

Capire che l’Italia è una potenza industriale

L’Italia è la seconda potenza manifatturiera, ed esportatrice, in Europa dopo la Germania, ma non ha un modello adeguato per rinnovare la competitività di questo motore di creazione della ricchezza, il principale. Mi sembra che la politica non lo abbia capito. Ho anche la sensazione che molti imprenditori siano intrappolati nell’immagine sbagliata che sia inevitabile trasferire le produzioni in aree con minori costi del lavoro. Ciò è dovuto al fatto che il modello economico nostrano ostacola oggettivamente l’impresa caricandola di costi e vincoli de-competitivi, ma, soprattutto, alla sfiducia che possa cambiare nel futuro. Se  vi fosse fiducia su una prossima riforma competitiva, gli imprenditori ed i manager sarebbero più motivati ad innestare il manifatturiero di nuova generazione, ad altissima qualità di processo che minimizza l’impatto del costo del lavoro, sulla base di cultura industriale fortissima diffusa nel nostro territorio. I commenti enfatizzano la sconfitta del sindacalismo ideologico nel caso Mirafiori. Scampato pericolo: la Fiat resta ed investirà. Ma in realtà la Fiat auto sta spostando la testa, le tecnologie e gli investimenti più importanti negli Stati Uniti perché lì trova condizioni migliori per fare industria, lasciando in Italia solo attività residue. Il punto: per rendere competitiva l’industria manifatturiera in Italia non basta sconfiggere il sindacalismo ideologico, per altro già ucciso dalla storia e patetico al punto da non meritare commento, ma bisogna modificare il modello economico complessivo.

Vorrei qui giustificare l’ipotesi che la politica non si renda ben conto che l’Italia ha il punto di forza nell’industria manifatturiera, via analisi comparata. La Germania se ne è accorta e quando ha visto la crisi competitiva del suo sistema industriale, alla fine degli anni ’90, è corsa subito ai ripari. Lo fece con un metodo di sinistra perché c’era un governo socialdemocratico (Schroeder). Forse per questo riuscì a convincere sinistra e sindacati a liberare le aziende dai costi eccessivi concentrando le garanzie sul lavoratore e non sul posto di lavoro. Cioè permise alle imprese di licenziare trasferendo i disoccupati all’assistenza pubblica (temporanea) e di riorganizzarsi verso la massima efficienza anche spinta da un detassazione privilegiata. Questo nuovo ossigeno sul corpo di grande tradizione industriale ne sviluppò muscoli potentissimi che oggi sono leva per una produttività stratosferica delle imprese e una crescita robusta dell’intera economia. L’Italia, invece, ha mantenuto le garanzie sul posto di lavoro, con la misura suicida della cassa integrazione, e non ha ridotto le tasse sulle aziende, con un orientamento, se fosse possibile defiscalizzare, che favorirebbe le persone fisiche, probabilmente per motivi elettorali mal concepiti, piuttosto che i luoghi produttivi. La Germania ha capito che se non rinforzava la competitività dell’industria  sarebbe morta. L’Italia no. Ma se lo capisse cosa potrebbe fare? Probabilmente molto meglio della Germania. Oltre a tassare non più del 20% le imprese, si potrebbe dividere in due il salario d’azienda: una parte fissa minima con ritenuta d’acconto ed una variabile, correlata agli utili d’impresa, detassata. Il costo del lavoro scenderebbe e i lavoratori avrebbero più soldi in tasca, cosa che aiuterebbe i consumi interni oggi piatti. Altre misure potrebbero incentivare la robotizzazione dei processi, considerando che l’Italia è terza al mondo per tecnologia robotica, che darebbe efficienza alle produzioni di qualità. La quantità di lavoro aumenterebbe invece di scendere, come profetizzano i gufi, perché l’Italia sarebbe ambiente per la nuova rivoluzione industriale trainata dal manifatturiero di nuova generazione. Crediamoci.   

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