E’ credibile che l’America si ribellerà al mondo da essa creato dopo il 1945, cioè al mercato internazionale aperto di cui è ancora centro? Molti se lo stanno chiedendo, prendendo una posizione più cauta di quella inizialmente euforica per la previsione di un prossimo boom dell’America grazie ai megastimoli promessi da Trump. Per rispondere bisogna capire che l’America ha un problema reale e irrisolto d’insostenibilità della sua posizione di guardiano e locomotiva economica del pianeta. Alla fine degli anni ’50 Washington sentì la priorità di rendere più coesa l’alleanza contro l’Unione sovietica. Scelse il metodo del commercio internazionale asimmetrico: permettere agli alleati di esportare senza limiti in America senza chiedere reciprocità in modo da renderli ricchi e convergenti. Così gli alleati poterono mantenere il protezionismo sociale interno e doganale, fonte di consenso, perché la sua inefficienza economica era compensata dai profitti dell’export. Mentre le auto nipponiche riducevano il lavoro e i salari a Detroit, gli agricoltori del Nebraska non potevano esportare meloni a Tokyo, il cui prezzo restava alto per la gioia dei produttori locali. Tale strategia, poi, diede la forma al successivo mercato globale: tutte le nazioni presero modelli basati sull’export e non sulla crescita interna. L’equilibrio era raggiunto con una formula finanziaria: i dollari mandati all’estero erano, e sono, reinvestiti dagli esportatori nel sistema finanziario statunitense, debito e Borse in particolare. Da un lato, ciò ha bilanciato tecnicamente il deficit commerciale. Dall’altro, ha deindustrializzato e impoverito l’America. I tentativi statunitensi di ridurre questo impatto si sono scontrati con il rifiuto delle nazioni di fare più crescita interna perché ciò implica liberalizzazioni ostacolate o dal consenso, nei Paesi con forte protezionismo sociale, o da un livello di sviluppo insufficiente. La maggiore responsabile del mancato riequilibrio è l’Europa che, soffocando la propria crescita, non agisce come co-locomotiva globale, togliendo pesi all’America. Ora Trump tenterà con più durezza il riequilibrio. Ma è improbabile che la sua azione abbia conseguenze deglobalizzanti perché non è nell’interesse dell’America. Cercherà, invece, una relazione bilanciata tra il dare e l’avere economico (e militare) con il mondo. Probabilmente Trump non ha chiaro il come e potrebbe fare errori destabilizzanti. Per questo le nazioni evolute, tra cui l’Italia, dovrebbero aiutare il riequilibrio invece di pensare che sia solo un problema di populismo.