Il governo enfatizza che le misure economiche approvate venerdì scorso, ed altre in programma, produrranno un incremento aggiuntivo del Pil del 3,6% in cinque anni (l’Ocse stima il 3,3%). Significa che alle previsioni di crescita fatte in precedenza senza tener conto delle “riforme”, poco sopra l’1% per anno, oggi possiamo aggiungere un 3,6% complessivo nel quinquennio, cioè prevedere una crescita complessiva del Pil attorno al 9% nel periodo 2016-20, meno del 2% medio annuo. Il governo ha già inviato questo scenario alla Commissione europea per sostenere la tesi che l’Italia avrà una crescita sufficiente a reggere il debito e che rispetta i parametri. Ma questi numeri, assumendo che siano verosimili, indicano un destino di morte economica della nazione. Se dal 2016 al 2020, infatti, la massima speranza di crescita è sotto al 2% annuo, allora sarà inevitabile una forte deindustrializzazione, sarà molto improbabile riassorbire la forza lavoro espulsa dalle produzioni nel triennio scorso e sarà impossibile dare nuova occupazione a tutti quelli che la cercano: se dopo una crisi non c’è un rimbalzo forte le unità economiche ferite non possono guarire. Per correttezza, va sottolineato che in questa materia il governo mostra certa prudenza nelle previsioni. Ma va anche detto che tale prudenza è resa necessaria dalle perplessità che chi valuta l’Italia ha già espresso informalmente nelle settimane scorse al riguardo della vera portata stimolativa delle “riforme”. L’inconsueta testimonianza dell’Ocse, dove Padoan ha lavorato come capo economista, che ha confermato le stime governative, pur riducendole, fa sospettare che ci sia stato un problema di credibilità. Il governo, infatti, dichiara che del 3,6% ben l’1,4% dipenderà da riforme della PA e della giustizia, lo 0,7% da privatizzazioni ed il resto dal “jobs act”. Ma la riforma del lavoro, pur migliorativa, non è (ancora) così profonda da incentivare assunzioni massive, l’effetto di (eventuali) miglioramenti nel sistema giudiziario è molto indiretto, le privatizzazioni faranno calare il debito, ma di un’inezia. In sintesi: (a) le cifre date dal governo comunque segnano un destino di stagnazione per l’Italia; (b) il loro effetto stimolativo potrebbe essere molto minore. Per questo segnalo che l’Italia, per invertire il declino, dovrebbe crescere oltre il 3% all’anno dal 2016 al 2020, cioè almeno del 18% complessivo e non del 10% circa indicato dal governo, e che per riuscirci l’unico modo è quello di abbattere per circa 90 miliardi la spesa e tagliare di almeno 70 le tasse, altre misure insufficienti.