Quasi 2/3 dei giovani tra i 18 ed i 30 anni vivono in casa con i genitori e molti di loro che hanno un impiego ottengono un salario di ingresso inferiore a quello di 20 anni fa, a parità di categoria lavorativa. Chi scrive ha anche notato che la “mobilità ascendente”, cioè quanti figli hanno lavori migliori e meglio remunerati dei padri, è piatta o perfino in regressione se l’indicatore viene ricalcolato adattandolo meglio alla comparazione. Questi dati indicano un ritardo abnorme nell’età lavorativa ed il rischio di regressione della qualità sociale. Due ipotesi: (a) il modello va bene, sono i giovani che vanno male; (b) la responsabilità della crisi regressiva della società non è degli individui, ma della combinazione di un sistema economico e formativo che non funzionano.
Nella prima ipotesi il fattore chiave sarebbe la voglia dei giovani di fare solo certi lavori e la loro indisponibilità a prendere occupazioni faticose, combinato con il desiderio di prolungare il più possibile la fase di vita senza responsabilità. Certamente un certo numero di giovani mostra tali sintomi. Ma la loro quantità è molto minore di quelli che vorrebbero, invece, anticipare autonomia e responsabilità e non ci riescono. Inoltre, più che da pigrizia o da sindrome di Peter Pan, il fenomeno dei ritardatari in Italia pare influenzato da un’altra causa. Finito il periodo formativo il giovane cerca le opportunità che sogna, non le trova subito e passa un certo periodo cullandosi nell’idea che aspettando ed insistendo le troverà. La famiglia ne regge l’ambizione fornendo sostegni. Poi, invecchiando, si rende conto della realtà e si adatta a fare un lavoro ed una vita diversi da quelli sognati. In generale, non ci sono segnali di mancanza di attivismo nei giovani di entità tale da spiegare con questo motivo l’enorme “ritardo di vita” medio.
Il problema è nel sistema. Mancano le opportunità ed il sistema formativo non è calibrato per mandare un giovane il prima possibile a lavorare. Le garanzie, nel sistema europeo continentale ed italiano, vengono intese come protezioni per chi lavora non come opportunità di avere più occasioni di lavoro. Il modello americano, più liberalizzato, invece protegge poco l’individuo quando lavora, ma gli garantisce nei fatti che se perde un lavoro ne trova subito un altro. Stimola cioè il mercato a crescere tenendolo flessibile e stimolandolo con (relativamente) poca tassazione. L’andamento crescente delle opportunità velocizza il distacco dei giovani dalla famiglia, rendendolo sostenibile. Negli Stati sociali di tipo europeo continentale il mercato fornisce meno opportunità perché l’erogazione diretta di tutele implica alte tasse, costi elevati e vincoli che danno rigidità, il tutto causa di bassa crescita e minore varietà economica. In America il sistema educativo è adattato ad un mercato veloce e competitivo. In Italia il sistema universitario e scolastico fornisce istruzione scollegata alla realtà del mercato. Il modello americano è criticabile perché pur creando opportunità crescenti non riesce a dare a tutti le possibilità di coglierle o di ricavarne un reddito adeguato. Ma quello sociale europeo ed italiano sono doppiamente criticabili perché sia forniscono poche opportunità sia non forniscono competenze e quantità di remunerazione in numeri sufficienti. In conclusione, la velocità di accesso al lavoro e la capitalizzazione dei giovani dipendono molto dal tipo di modello politico/economico. I nostri non sono bambinoni, ma vittime. Nel passato gli imperi uccisero i giovani mandandoli alla morte in guerra. Ora il modello economico/sociale sbagliato li “ammazza” non mandandoli in vita.