Imprenditori, commercianti, artigiani e liberi professionisti stanno protestando per l’aumento delle tasse e per il modo con cui questo viene calcolato. Quanto è giusta tale protesta che sta prendendo toni forti?
Il problema riguarda gli studi di settore, ovvero il calcolo presuntivo di reddito imponibile determinato da una data attività. Tale metodo si basa sull’assunzione che, per esempio, un taxista guadagni come un taxista, cioè che più di tanto non si scosti dalla media. Ma in realtà un taxista può guadagnare 100 ed un altro mille, pur la media, per dire, 500. Se il primo viene caricato dell’imposizione media è un’ingiustizia. Può dimostrare le sue ragioni? Certo, ma sottoponendosi ad un accertamento da parte della polizia fiscale. Chi è congruo, invece, stando nella media la evita. La mia perplessità sul tale procedura, avviata dal governo di centrodestra per favorire la semplificazione del rapporto tra fisco e cittadini, deriva dal fatto che è imprecisa, non contempla le variazioni di mercato e può diventare uno strumento di pressione fiscale. E nelle mani del governo Prodi sembra lo sia diventato: pagate di più o cadete nell’accertamento. I lettori potrebbero dire che uno onesto può accettarlo senza problemi. In realtà i problemi ci sono. Il fisco italiano non riconosce i costi di impresa, se non in minima parte. E’ probabile che ogni attore economico si autoriduca tali costi di un po’ e che ciò lo renda vulnerabile all’accertamento. Il governo lo sa, ma non ha voluto fare meglio i calcoli dei costi aziendali o dell’attività professionale. Li lascia sottostimati, costringe gli operatori a piccole illegalità per stare entro il conto economico reale, ogni accertamento diventa una multa per questa o quella piccola mancanza e così il governo è sicuro che l’accertamento stesso comporti il terrore. Se vuoi evitarlo, paga di più. Tutto questo schema è sbagliato tecnicamente ed ingiusto eticamente. Gli studi di settore andrebbero aboliti come parametro di congruità, pur mantenuti come linea guida interna per la polizia fiscale. Soprattutto, negli schemi fiscali dovrebbero essere incorporate in detrazione tutte le spese che servono a produrre il reddito di impresa e professionale mentre ora non lo sono. Se lo fossero, buona parte dell’evasione che avviene in queste categorie, per necessità più che per opportunismo, sparirebbe. Ma c’è un altro motivo di fondo per sostenere la protesta fiscale. Il governo sta con molta evidenza demonizzando e penalizzando il lavoro autonomo e l’impresa. Da un lato, in questo settore c’è parecchia evasione, ma dall’altro la tassazione è oppressiva. Il carico fiscale effettivo teorico è tra il 45 ed il 50% del profitto di impresa, ma quello reale è molto maggiore, insostenibile per i piccoli operatori. Infatti prevale l’evasione di necessità, per stare sul mercato, su quella opportunistica. Ma il governo di sinistra non vuole riconoscere questo stato di necessità prevalente. Nega il dato evidente che la gran massa dell’evasione è al Sud e non al Nord. Inoltre favorisce il conflitto sociale sostenendo la seguente tesi: poiché se tutti pagassero le tasse queste potrebbero essere minori, il fatto che i lavoratori indipendenti non le paghino è la causa delle alte tasse per quelli dipendenti. Un governo che dice queste cose ideologiche e non realistiche merita una reazione forte. E va lodata l’iniziativa aperta delle categorie perché evita o minimizza la rivolta silenziosa individuale fatta evadendo di più, la più pericolosa perché spaccherebbe definitivamente la nostra comunità.