Agli inizi degli anni ’90 il sistema bancario italiano era per lo più in mani statali, frammentato tra istituti piccoli e burocratizzati dove uno solo, Mediobanca, poteva fare il lavoro di “banca di investimento”. La struttura finanziaria nazionale era rimasta inalterata dopo le misure contro la crisi globale prese dal governo Mussolini nei primi anni ’30. Lo Stato aveva preso tutto in mano creando l’Iri come strumento per evitare il fallimento di banche ed industrie private. Tale statalizzazione, non modificata nel dopoguerra, fu la causa del bancocentrismo inefficiente e del nanismo del capitalismo privato. Nel 1993 il Trattato di Maastricht impose di forma e di fatto una configurazione più moderna del sistema. Il governo di allora promulgò una nuova legge bancaria e dovette privatizzare le banche statalizzate (Bin), oltre che i gruppi industriali, ma senza che alcuno in Italia avesse i soldi per comprarli. Per questo la politica stimolò la formazione di Fondazioni e consociazioni di imprenditori a cui trasferire tali beni, ma la sottocapitalizzazione e la fretta crearono un arcipelago di entità deboli ed opache. Il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, difese il sistema contro l’invasione del capitale straniero cercando di “blindarlo”. Ma non poteva funzionare perché in economia valgono i rapporti di scala come in politica quelli di forza. Anche per questo il nuovo governatore, Mario Draghi, concepì una difesa più attiva basata sulla facilitazione digrandi aggregazioni non solo per resistere a tentativi di conquista, ma anche per espandersi all’estero. Infatti la creazione di Unicredito come prima banca italiana e seconda europea per grandezza, chiude la fase di transizione e consolidamento del sistema bancario.
D’altra parte il consolidamento non è stata pianificato a tavolino, ma generato da contingenze lungo la linea detta. La fusione tra Intesa e San Paolo nacque dall’esigenza sia di Bazoli sia della proprietà torinese di difendere le rispettive banche da acquisizioni di giganti francesi. Quella tra Unicredito e Capitalia è stata fortemente voluta da Draghi per bilanciare lo strapotere - di mercato - di Intesa San Paolo, ma è stata accelerata dal fatto che l’azionista di riferimento della seconda – ABN Amro – sta per essere acquisito da predatori globali. In questi casi gli azionisti hanno interesse a fare accordi pragmatici tra loro per salvare almeno una parte della loro influenza. Ciò spiega la velocità delle decisioni. Ma, soprattutto, la presenza di due giganti permette alla Banca d’Italia di poter comandare e quindi regolare il sistema, cosa non possibile se il gigante fosse uno solo. Ora Draghi potrà usare la concorrenza inevitabile tra Intesa SP ed Unicredito per bilanciare il potere di ambedue e attraverso questa forza stabilizzare anche Assicurazioni Generali che è il tesoro più ambito per la finanza italiana ed europea. Possiamo dire che con questa mossa si conclude il periodo di transizione e consolidamento del sistema bancario apertosi nel 1993, nonché della sua ri-privatizzazione dopo la statalizzazione degli anni ’30. Ai lettori interessa sapere quali vantaggi avranno dalla nuova configurazione. Ce ne saranno, ma è presto per dire esattamente quali. Ai potenti interessa sapere chi in realtà comandi e i media sussurrano che Intesa SP sia un dominio di Prodi ed Unicredito di D’Alema. Per le piccole cose forse è così, ma per quelle grosse il comando lo ha Draghi e fa piacere vedere che il vero potere bancario sia tornato nelle mani dell’istituzione delegata ad esercitarlo.