Quale sarà la politica economica del governo dopo il vertice di Caserta? Cambiare poco ed annunciare molto. Non è mancanza di rispetto. La sopravvivenza del governo sarà determinata dai risultati delle elezioni amministrative di primavera con forte significato politico generale per il fatto che i votanti saranno 11 milioni. Un risultato molto negativo non farà cadere subito il governo, ma destabilizzerà la maggioranza. Un risultato mediocre, ma non catastrofico, invece, lo rafforzerà. Per ottenerlo, la sinistra deve votare compatta. Ciò significa non deludere gli interessi rappresentati sia da quella estrema sia da quella moderata. Per tale motivo “politichese” il governo, appunto, cambierà molto poco in materie economiche ad elevata sensibilità sociale, dove è più elevata la probabilità di dissensi ed annuncerà molto in modi sufficientemente ambigui da poter dare soddisfazione ad interessi opposti.
Infatti Prodi ha chiesto la delega a gestire l’agenda delle riforme. Con questo atto ha voluto ricordare alla coalizione che il suo ruolo è quello di garantirne la sopravvivenza nonostante le visioni incompatibili che vi albergano, cioè che solo lui è in grado di fare questo lavoro, non altri. Stabilita la prevalenza dei fattori di politica pura su quella tecnica cosa possiamo aspettarci? La riforma delle pensioni implica una revisione al ribasso dei cosiddetti “coefficienti”. In parole semplici vuol dire che poiché la vita media si è allungata l’assegno pensionistico a carico del bilancio dello Stato dovrà ridursi. Tale tema è esplosivo. L’Unione europea preme affinché venga stabilito un tetto alle pensioni che renda sostenibili i conti pubblici nel lungo termine. Se l’Italia non sarà convincente su questo piano l’accordo con la Commissione e quello di fare tagli strutturali di spesa pubblica in altri settori. Ma ambedue le scelte non sono gestibili da un governo di sinistra. I sindacati e partiti estremi hanno già annunciato una opposizione totale. L’ipotesi, poi, di alzare le tasse per mantenere finanziato l’attuale regime irriformato solleverebbe la rivolta del ceto medio produttivo e sarebbe bocciata dall’Europa per l’effetto recessivo della misura. Quindi è ovvio che il governo non metterà mano sostanzialmente alla questione fino al giugno prossimo, sperando poi di trovare una formula per barcamenarsi. Per inciso, esiste una soluzione tecnica piuttosto semplice. Si tratta di dividere la pensione in tre parti: una a carico dello Stato, garanzia assoluta, la seconda come risparmio privato, la terza come fondo integrativo inserito in un contratto di lavoro. In tal modo, fisso più variabile, l’assegno di pensione complessivo potrà aumentare senza pesare oltre misura sul bilancio statale. Ma un governo di sinistra non potrà mai farla perché significa accettare il principio che la vera garanzia pensionistica è data dal mercato efficiente, in combinazione con lo Stato, e non più dal solo Stato stesso. Ma, appunto, è fantapolitica parlare di tali soluzioni in Italia dopo decenni di indottrinamento statalista della popolazione. Infatti, alla fine, la soluzione qui detta verrà imposta dall’esterno, cioè da una norma europea. Nel frattempo non si cambierà alcunché, facendo solo annunci utili al consenso e giustificando le non decisioni come necessità di riflessione complessiva sul modello di welfare, per esempio gli ammortizzatori sociali. Tanti convegni. Perfetta la scelta della Reggia di Caserta perché in lingua locale tale modo di fare, negli usi della marina borbonica, si chiama “ammuina”.