Molti si chiedono se la caduta del valore di cambio del dollaro sia un fatto temporaneo oppure strutturale. Altri se siamo alle soglie di un crollo del biglietto verde di dimensioni tali da far prevedere una crisi globale totale come nel 1929. Vediamo cosa sta succedendo in realtà.
Venerdì scorso il cambio del dollaro è caduto, portando l’euro ad 1,30 sul dollaro stesso. Perché? La crescita dell’economia statunitense sta rallentando. A fine 2006 è prevista poco sopra il 3%, per il 2007 potrebbe stare sotto. Ciò significa che l’autorità monetaria non alzerà più il costo del denaro, portato nell’ultimo anno oltre il 5% per frenare un’economia surriscaldata. Anzi, probabilmente, lo ridurrà. Tale previsione rende meno attrattiva la remunerazione nominale dei titoli obbligazionari denominati in dollari. Pertanto una parte dei flussi di capitale si sta spostando verso l’euro perché la Banca centrale europea ha lasciato intendere, ahinoi, che aumenterà il costo del denaro. In dicembre lo porterà al 3,5% e nel 2007 potrebbe alzarlo fino al 4% vedendo nei suoi scenari un elevato pericolo prospettico di inflazione a causa di una certa ripresa nell’eurozona e fenomeni di bolla immobiliare e simili. Ma tale movimento di contingenza è anche segnato da un fenomeno strutturale. Per esempio, la Cina ha cumulato mille miliardi - un trilione - di dollari di riserve in valuta estera e non necessariamente vorrà tenerli tutti in quella moneta perché ritiene che il suo valore di cambio potrebbe scendere. Se Pechino ed altri Paesi esportatori faranno tale mossa, allora la massiccia vendita di dollari nel mercato potrebbe portarne molto in basso il cambio e far schizzare l’euro fino ad uno 1,50/1,60 per un dollaro. Chi scrive ritiene che non lo faranno in modo massiccio perché il crollo del dollaro renderebbe meno competitive le esportazioni di Cina, Giappone ed altri Paesi asiatici creando una crisi in quelle economie che basano circa il 30% del loro Pil sull’export negli Stati Uniti. Per tale motivo il dollaro resterà moneta di riferimento mondiale. Ma bisogna notare che molti dollari in riserva sono cambiati in altre valute. E che i produttori di petrolio, che incamerano dollari, tendono a differenziare il loro portafoglio comprando euro e altre monete. In sintesi, è in atto una differenziazione valutaria più che un crollo strutturale del dollaro. Questo resterà moneta di riferimento, ma non più il riferimento unico. Potrà tornare a valori di cambio elevati, ma certamente non in poco tempo. Per inciso, la parità teorica in termini di potere di acquisto tra dollaro ed euro dovrebbe portare ad un cambio equilibrato tra lo 1,10 ed lo 1,16. Ma l’andamento corrente dei flussi di capitale, se non corretto da interventi, sta portandolo verso lo 1,40. Se ciò avverrà saranno guai enormi per chi esporta avendo i costi di produzione in euro ed il mercato di vendita in dollari o moneta agganciata. Già molti esportatori italiani lamentano un crollo del 30% della loro competitività nei mercati sudamericani. Molti analisti ritengono che chi produce grandi sistemi tecnologici in Europa non soffrirà per il cambio penalizzante. Ma è previsione azzardata. Soprattutto, va considerato che l’economia italiana esporta prodotti molto sensibili al valore di cambio e che Germania e Francia non producono ed esportano solo grandi sistemi tecnologici. Quindi sarebbe interesse europeo limitare la trappola dell’euro decompetitivo. Ma la Bce, che vuole il cambio elevato dell’euro per il suo effetto disinflazionistico, non lo farà e avremo guai più grossi di quanto oggi immaginato.