Alcuni think tank stanno pronosticando un aumento del rischio di protezionismo e conseguente frammentazione del mercato globale con esiti catastrofici. La rinazionalizzazione del mercato internazionale è evidente, ma questi colleghi stanno facendo l’errore di associarla alla crisi della globalizzazione. In realtà il processo in atto non porterà al blocco dei flussi internazionali, ma a una loro ri-selezione in base al criterio del chiaro vantaggio nazionale, tra cui nelle democrazie avrà priorità la tutela contro impatti eccessivi della concorrenza esterna. In sintesi, il mercato internazionale resterà aperto, ma con guardiani governativi più attenti a presidiare i cancelli. Aumenterà, poi, l’intervento dei governi nelle relazioni internazionali tra attori privati del mercato. Ciò implica, semplificando, che sempre più le aziende private dovranno seguire percorsi di internazionalizzazione determinati dalla politica estera delle loro nazioni di riferimento. E che la loro competitività dipenderà sempre più dalla proiezione di potenza politica. Tale fenomeno, in sé, non è nuovo. Ciò che è nuovo è la fine del potere imperiale globale degli Stati Uniti che imponeva alle altre nazioni standard di apertura e offriva autonomia al business privato. Da un lato, la globalizzazione intesa come americanizzazione, ha creato in due decenni circa tre miliardi di nuovi ricchi nel pianeta. Dall’altro, ha generato squilibri nell’accesso alla ricchezza che ora devono essere bilanciati a livello di singole nazioni. Il protezionismo, però, è improbabile perché la ricchezza di ogni nazione dipende con troppa evidenza dal mercato internazionale. E’ probabile invece, e sta avvenendo, una riselezione nazionale dei flussi. Su questo fenomeno si innesta quello della ricerca da parte di parecchie potenze sia medie (Russia, Iran, ecc.) sia grandi (America, Cina) di un’area di influenza, che fa prevedere una regionalizzazione del mercato globale, ma non il suo collasso. Nel nuovo scenario sarà più difficile praticare il mercantilismo, che implica neutralismo, e ogni nazione dovrà aumentare sia il proprio potere (geo)politico e/o partecipare ad un blocco regionale sufficientemente grande. Il pensiero strategico giapponese lo ha colto da tempo e per questo preme per accordi di libero scambio con America ed Europa. Quello britannico lo sta valutando con ansia. L’americano lo ha ben chiaro dal 2013. Quelli tedesco e francese non vogliono accorgersene e ciò pone il problema strategico di capire quale regione euro-asiatica-americana sarà possibile e utile per l’Italia.