Lo scenario di una crisi futura della moneta unica comincia a prendere certa probabilità agli occhi degli analisti che stanno osservando le difficoltà economiche, sul piano della competitività, delle euronazioni: enormi in Grecia e Portogallo, pesanti in Italia ed iniziali in Spagna che pur fino a poco tempo fa cresceva bene. La loro ipotesi è che la moneta “forte” (cambio elevato e presidio rigido del rischio di inflazione) possa essere sostenibile solo da Paesi con struttura industriale altrettanto forte, cioè meno vulnerabili alle restrizioni richieste dall’ordine finanziario europeo. In un seminario a Parigi, giovedì scorso, Karl Otto Pohel, stimato banchiere centrale tedesco negli anni ‘70, mi ha confidato che era sinceramente preoccupato per la tenuta dell’euro. In Europa solo la Germania può permettersi una moneta forte, La Francia anche, ma un po’ meno, tutti gli altri no. Ora il nodo della fusione monetaria tra economie deboli e forti, gestita con criteri adatti solo ai secondi, sta venendo al pettine.
Il nodo, in realtà, è quello della difficoltà a compiere riforme di efficienza negli Stati. La Germania ne soffre sul piano dell’occupazione, ma non della competitività industriale che, infatti, cresce mantenendo forte quel sistema pur con cinque milioni di disoccupati. La Francia più o meno lo stesso, ma con più problemi. Ciò succede perché in sistemi di grande industria che fa sistemi complessi non replicabili dalla concorrenza la sfida competitiva globale riduce la scala delle aziende, per requisito di efficienza, ma non le fa chiudere. In Italia ed altri Paesi con la maggioranza delle industrie che non fanno grandi sistemi sono le aziende stesse che rischiano la chiusura. Il nostro Paese tiene, ha aumentato l’occupazione grazie all’ottima legislazione attuata dal governo Berlusconi, ma soffre sempre più la combinazione moneta forte, cambio elevato e assenza di riforme strutturali più debito pubblico storico stellare. Grecia, Portogallo e forse, nel prossimo futuro, la Spagnapotrebbero non tenere. Se consideriamo che nei Paesi più grandi le riforme di efficienza saranno lente anche nel caso migliore e che in quelli più piccoli comunque tali riforme non basterebbero a risollevarli perché ci vorrebbe una svalutazione sostanziale, allora bisogna pensare ad un qualcosa che l’Unione europea possa fare e che finora non ha fatto per permettere alle nazioni deboli di poter reggere il peso dell’euro ed a quello forti di crescere di più per trainare l’insieme. Il punto può essere meglio, emotivamente, chiarito se lo si dice così: finora l’Europa deve “dare” loro qualcosa di più dell’euro se vuole evitare la crisi della moneta unica e di tutto il sistema. Ma dare cosa? Tremonti ha proposto che l’Unione europea si indebiti come tale per dare risorse aggiuntive agli Stati che devono rispettare il Patto di stabilità e si trovano senza capacità di bilancio pubblico per finanziare investimenti o detassazioni. La Bce e la Commissione hanno respinto tale proposta perché, pur europeizzato, il debito crescente indebolirebbe l’euro e aumenterebbe l’inflazione. Tecnicamente hanno ragione, ma la questione suscitata dal nostro ministro resta in prima pagina: se l’Europa non da qualcosa, in attesa delle riforme nazionali di efficienza, gli Stati meno forti non la reggeranno e quelle più forti avranno sempre più disoccupati. Al momento gli eurotecnocrati che difendono la moneta forte indipendentemente dalla realtà economica e i politici che propugnano politiche che implicano un minore rigore monetario non riescono a capirsi e la ricerca delle soluzioni è in stallo.