Dal 1993 Al Qaeda ha scatenato una guerra contro l’Occidente finalizzata a fargli togliere l’appoggio ai regimi islamici moderati per poterli rovesciare più facilmente e fonderli in un Califfato fondamentalista con capacità di potenza globale data dalla conquista della Mecca, guida di un miliardo e mezzo di fedeli, petrolio e atomica. Con lo scopo ulteriore di convertire alla “vera fede”, in tempi lunghi, il resto del mondo. Questo è il progetto della Jihad. Viene perseguito attraverso cellule operative caricate di tre compiti: eseguire attentati e mobilitazioni rivoluzionarie, reclutare altri gruppi, restare in sonno per fornire supporto logistico a chi svolge il primo. La loro penetrazione, indisturbata per tutti gli anni ’90, è rilevabile in quasi 70 Paesi. Il tipo di guerra è “asimmetrico”: se il nemico è imbattibile su un piano, allora lo si attacca su un altro dove è vulnerabile. La scelta del terrorismo, infatti, è stata basata su questa logica fredda. Studiata dal nucleo di intellettuali egiziani guidati da Al Zawahiri, il vice di Osama Bin Laden: senza supporto occidentale i regimi islamici moderati cadrebbero come birilli, bisogna mostrare all’Occidente che il prezzo per mantenerlo è superiore al beneficio. Tale è il senso strategico degli atti di terrore, oltre a quello di eccitare i militanti per reclutarne di più. L’offensiva è stata finora condotta con maestria: risultare spettacolari, ma senza erodere troppo le risorse; cercare di dividere l’Occidente dando l’impressione che il non seguire gli Usa garantirebbe la non punizione; rendere credibile il progetto di resurrezione della potenza islamica a tutti i credenti in modo tale da reclutarli in numeri crescenti. Nonostante il contrasto del nucleo centrale di Al Qaeda, ridotto a poche decine di persone braccate, il piano sta avendo successo: circa centomila soldati nel mondo, tra cui un migliaio di kamikaze, almeno ventimila in Europa, più di cinquemila in Italia. Organizzati in gruppi nascosti nella gran massa di immigrati islamici. Che si stanno formando spontaneamente, così moltiplicandosi senza bisogno di troppi investimenti da parte del comando centrale.
Il punto: c’è un ritardo culturale, soprattutto in Europa, nel capire che vi sia una guerra ed esattamente quella qui detta, ma gli attacchi recenti hanno dato un segnale di sveglia. Una delle conseguenze è valutare entro una logica costi/benefici in quali azioni bisogna investire risorse per sconfiggere l’aggressore e minimizzare i danni.
I livelli di contrasto del nemico jihadista sono tre: (a) antiterrorismo, tutte le azioni finalizzate ad eliminare il nemico “alla fonte”; (b) controterrorismo, cercare di negare al nemico un bersaglio sia blindandolo sia intercettando l’attacco; (c) gestione delle emergenze, con lo scopo di contenere ed assorbire in tempi brevi un danno e mantenere la fiducia nonostante il colpo subito. Si nota in Europa la tendenza a investire pochissimo sul primo, tantissimo sul secondo e poco sul terzo. Tale logica è sbagliata perché l’investimento di secondo livello alza la fatica per gli attentatori, ma non può impedire un attentato. Negli Usa si investe un massimo su tutti e tre i livelli, ma il costo è insostenibile. In sintesi, l’Occidente non sta allocando bene le risorse per combattere la Jihad. La seguente logica strategica sarebbe molto più efficace e sostenibile economicamente: (1) unire le risorse euroamericane integrando i sistemi di difesa ed attacco; (2) investire un massimo sul primo livello, l’attacco, solo il necessario sul secondo - e nel suo ambito più sulle infiltrazioni e spionaggio e meno nelle blindature passive - ed un altro massimo sul terzo.