Mercoledì prossimo, anticipato dai canti del Live-8, vi sarà il summit dei G8 dedicato alla lotta contro il sottosviluppo. Ci sono circa 55 nazioni poverissime nel pianeta dove la miseria è assoluta, per lo più in Africa e qualcuna in Asia. Nel resto del mondo circa altre cento nazioni sono povere, una cinquantina quelle sviluppate. In generale, nel pianeta vi è 1/4 di ricchi - intesi come chi ha del capitale che eccede la spesa per la sopravvivenza basica - e 3/4 di quasi poveri, poveri e poverissimi. Questo, pur pennellato in modo frettoloso, è il quadro.
Quadro che non piace all’economista perché non potrà esistere un mercato globale consolidato fino a che esisterà una tale proporzione tra ricchi e poveri. E che certamente non piace ai benpensanti delle democrazie ricche occidentali toccati dalla tragedia dell’estrema povertà che entra nelle case attraverso le immagini della televisione. Si sta formando, infatti, una convergenza tra pensiero tecnico e quello morale per dare alle duecento nazioni del pianeta un futuro di sviluppo. Ma quando si discute sul “come” emerge una divergenza tra soluzioni “tecniche” e “morali”. I portatori delle seconde si limitano a reagire alle immagini di estrema povertà con un’emozione di carità: doniamo. Per esempio, lo 0,7% del Pil di ogni Paese ricco alle nazioni poverissime africane. I “tecnici”, invece, si chiedono a chi va il dono e per che cosa. Perché dallo studio del sottosviluppo emerge che i singoli governi, classi dirigenti e modelli politici locali sono i diretti responsabili della povertà. Per tale motivo l’aiuto ad un Paese poverissimo, oltre che essere fatto tecnicamente bene per non diventare devastante assistenzialismo, deve essere condizionata alla creazione di una dirigenza nella nazione ricevente che assicuri che i soldi concessi, o in forma di cancellazione del debito o di investimento diretto, vadano a vantaggio della popolazione. Ma i Paesi poverissimi, poveri ed emergenti sono per lo più guidati da dittatori o comunque da regimi non democratici che rifiutano tale condizionalità chiamandola neocolonialismo. Ciò provoca nei governi occidentali la scelta tra tre alternative, tutte difficili : (a) dare i soldi che poi finanziano dittatori e guerre senza beneficio per le popolazioni; (b) non dare nulla, ma poi farsi accusare di spietatezza dal proprio elettorato e lasciare aperti dei focolai di infezione globale; (c) dare, ma imponendo una limitazione della sovranità della nazione con rischio di conflitti sia internazionali sia nei sistemi politici interni. La soluzione trovata è un misto tra la prima e la terza, dando pochi soldi a certi regimi che accettano una condizionalità morbida. Ma non serve a nulla. Cosa servirebbe, invece? Una pressione globale che imponga dall’esterno la democrazia ai Paesi poveri. Cioè far votare il povero affinché ottenga ospedali, scuole ed opportunità economiche. La democrazia – in base alla ricerca recente che smonta la vecchia idea (Lipset) che la democrazia stessa sia di ostacolo al primo sviluppo - favorirebbe gli investimenti, diffonderebbe la ricchezza. Ma i tanti, da noi, mobilitati moralmente contro la povertà non invocano la soluzione democratizzante, anzi la tacciono o la respingono, facendo mancare ai governi occidentali il consenso interno, la pressione, per attuarla. E qui viene fuori il punto vero: se vogliamo dare la ricchezza di massa alla gente del pianeta bisogna rimuovere le cause politiche della povertà, con le buone, ma anche ricorrendo alle cattive, imponendo il modello giusto a 200 nazioni. Sarà un progetto concreto di “democrazia attiva” a risolvere la povertà, non belle parole e canzoni.