Chi scrive ha sostenuto, fin dal 1996, che imporre la moneta unica alle nazioni europee prima che queste fossero state pronte avrebbe comportato il rischio di distorsioni economiche talmente gravi da comportare il fallimento dell’euro. Inascoltato. Oggi, senza alcuna soddisfazione personale a parte quella scientifica di averci visto giusto, tale preoccupazione comincia a filtrare proprio dalla Banca centrale europea. Il vicepresidente della Bce, Papademos, ha infatti dichiarato venerdì scorso di temere che l’euro abbia danneggiato la crescita. Vuol dire che anche nella cattedrale dell’euro la moneta unica è sotto esame. Ed è giusto avvertire il lettore che sempre più analisti hanno il dubbio che l’euro non possa essere sostenibile nel futuro. Così come è giusto segnalare che l’analisi razionale vuole mettere sotto esame l’euro per capirne meglio i difetti allo scopo di ripararli. Tale posizione si differenzia da altre due praticate nel mondo politico: quella di imputare all’euro la causa principale dell’impoverimento, invocandone l’abbandono come soluzione ai mali, e quella di continuare a dire che l’euro va bene così pretendendo che non occorra cambiare alcunché. Sono posizioni sbagliate, giusta, invece, quella di buon senso: parlare apertamente di quello che non va per correggerlo, senza estremismi eurolirici o euroantagonisti.
Cosa non va? Il problema principale è stato ben detto, tra gli altri, da Stephen Nickell, membro del comitato per la politica economica della Banca d’Inghilterra (fuori dall’euro, ma osservatrice spassionata dell’euro perché deve valutare se entrarci o meno): “ i risultati delle ricerche hanno portato alla conclusione che uno degli effetti dell’unione monetaria è l’indebolimento degli incentivi alle riforme strutturali nei Paesi membri più grandi”. Significa che il requisito di pareggio di bilancio imposto dalla moneta unica non permette agli Stati di finanziare in deficit le riforme di efficienza, per esempio la detassazione. In generale, l’euro è stato applicato a nazioni con modello economico inefficiente, prima che queste si riformassero, e poi ha impedito loro il cambiamento competitivo. Con questo si vuol segnalare che l’effetto impoverente dell’euro non è stato diretto, ma indiretto. Una nazione che voleva finanziare in deficit la detassazione o nuovi investimenti ha trovato il muro del Patto di stabilità che glielo ha impedito. Per questo il requisito di rigore dei bilanci pubblici si è scontrato con quello di sviluppo. Ma andiamo più a fondo. I vincoli di bilancio sono stati imposti perché mancava un governo economico europeo che modulasse in modo flessibile le esigenze delle singole nazioni. Quindi il problema nasce dal fatto di aver voluto fare una moneta unica senza un governo, almeno dell’economia, che lo fosse altrettanto. Per tale motivo l’euro si è rilevato un depressore – strutturale - della crescita. Ma sarebbe possibile correggere tale difetto? In teoria lo sarebbe: (a) concordare sul piano europeo per ogni nazione quanto deficit le serva per la riforma competitiva e lasciarglielo fare dietro garanzie condivise; (b) modificare lo statuto della Bce in modo da aggiungere alla sua missione di controllo dell’inflazione anche quella di stimolazione della crescita via mezzi più flessibili di politica monetaria. Tali misure basterebbero per ridurre l’impoverimento causato indirettamente dall’euro e con questo il dissenso antieuropeo rendendo sostenibile la moneta unica, sia tecnicamente sia politicamente. Ma, appunto, per farle ci vorrebbe un governo unitario dell’economia. Questo è il punto politico, non l’euro di per sé.