Perché Vladimir Putin ha rifiutato l’offerta di Donald Trump, pur con linguaggio rispettoso, di una tregua nel conflitto in Ucraina, poi seguita da negoziati di stabilizzazione dei confini, avendo Washington ottenuto dall’Ucraina la disponibilità a rinunciare sostanzialmente, pur non formalmente, ai territori pretesi da Mosca? Molti analisti hanno scritto perché Putin vuole di più: la neutralità disarmata dell’Ucraina residua, la rimozione delle sanzioni economiche, estendere lo spazio di influenza nell’area europea occidentale, una pressione statunitense sugli europei affinché siano meno aggressivi con la Russia, ecc. Non ho motivi per escluderlo, ma ne ho per sostenere che Mosca non ha la forza sufficiente per ottenere con la forza tali obiettivi. E so che nelle segrete stanze del Cremlino ci sono analisti molto capaci e dotati di realismo che certamente hanno avvertito Putin sia dell’infattibilità di un disegno neo-imperiale sia del fatto (dati oggettivi) che un’economia di guerra è insostenibile. C’è qualcosa di nascosto che bisogna portare alla luce per istruire decisioni geopolitiche realistiche da parte dell’alleanza delle democrazie.
Per prima cosa va analizzato il disegno di Trump. Vuole vincere il Nobel per la pace e ciò lo rende molle? Vuole ridurre i conflitti aperti nel mondo perché alla fine questi ricadono sull’America, dottrina con molti predecessori (l’America aspettò fino alla fine del 1941 e dopo un attacco diretto del Giappone per ingaggiarsi nella Guerra mondiale) ed amplificata dalla componente isolazionista/eccezionalista del suo consenso popolare? Si sente veramente in sintonia con gli autocrati dei regimi autoritari? Io vedo una continuità con la dottrina dell’interesse nazionale formulata, come piattaforma elettorale per George W. Bush, da Condolezza Rice nella primavera del 2000 sulla rivista Foreign Affairs in contrapposizione al globalismo predicato da Bill Clinton: costringere gli alleati a provvedere con più risorse alla loro sicurezza regionale, assicurando loro un ombrello di sicurezza indiretto. Poi la dottrina fu invertita come ingaggio diretto globale contro la minaccia jihadista nel settembre 2001. Ma fu ripesa da Barack Obama con il suo lead from behind (guidare da dietro). Semplificando, sia democratici sia repubblicani hanno una dottrina molto simile: evitare impegni troppo gravosi per la sicurezza globale pur volendo restare impero mondiale. Variante Trump? In linea. Ma c’è un nuovo nemico con la capacità di superare il potere statunitense sia militare sia economico: la Cina con modello autoritario. Pertanto la dottrina dell’interesse nazionale statunitense ora deve includere come priorità la riduzione del potere cinese. La conseguenza è che l’America deve trovare un modo per staccare la Russia dalla Cina per ridurne la forza, fin dal 2017 denominata come strategia del “Kissinger inverso” (negli anni 70 Kissinger staccò la Cina dalla Russia sovietica). Secondo me ed i miei colleghi del think tank euroamericano Stratematica questa strategia è il motivo principale della postura statunitense nei confronti della Russia a conduzione Putin.
Ma l’intelligence cinese ha ben capito il pericolo e Xi Jinping ha reagito velocemente offrendo a Mosca super-vantaggi affinché mantenga caldo il fronte dell’Eurasia occidentale per generare una dispersione territoriale delle risorse statunitensi utili ad evitarne la concentrazione nel Pacifico. Inoltre Pechino aspira ad essere il mediatore riconosciuto dall’America del conflitto tra Ucraina e Russia: sarebbe la legittimazione della Cina come seconda potenza mondiale alla pari con l’America. Non solo: in recenti colloqui con alcuni europei i rappresenti cinesi hanno fatto capire che se l’Ue si aprisse all’export cinese e diventasse più amichevole, la Russia non sarebbe più un pericolo. Va specificato che ormai la Russia è un dominio economico cinese.
La Russia? Qui c’è una difficoltà analitica. Putin, consapevole della debolezza russa, sta continuando l’azione bellica per mostrare alla Cina un’autonomia utile ad evitare un vassallaggio completo oppure sta eseguendo gli ordini di Pechino? La difficoltà è dovuta forse all’indecisione di Putin sulla grande strategia russa: arrivare ad un accordo con l’America avrebbe grande utilità, ma in tale accordo l’America farebbe fatica ad allineare l’Ue che ha capacità destabilizzanti nei confronti dell’area di dominio russa. Per esempio, basterebbe poco per cambiare regime in Bielorussia, europeizzare la Serbia, ecc. Poi Putin capisce che la Cina ne difenderebbe il ruolo di zar: meglio vassallo che ucciso.
Non so se al telefono Putin abbia spiegato le sue ragioni a Trump. Ma l’intelligence statunitense, come di altre nazioni, conosce piuttosto bene la situazione, anche grazie all’opposizione silenziosa crescente in Russia, perfino dentro le mura del Cremlino. In sintesi, la situazione è in stallo ed il vettore probabilistico sta andando a favore della Cina.
La giusta strategia? Alcuni colleghi sono preoccupati dal dopo Putin (più che settantenne) perché temono una guerra civile (in una mega-nazione nucleare) sostenuta dall’esterno e suggeriscono di offrire un vantaggio europeo a Mosca se congela il fronte ucraino ed avvia negoziati di ri-convergenza con il G7 per avviare un miglioramento economico dell’enorme Russia (con vantaggio reciproco). Altri vedono questa opzione di scenario impraticabile e sostengono una destabilizzazione rapida del regime putiniano aumentando il sostegno riservato alle crescenti forze di opposizione ora nascoste, ma che danno segnali di nuova organizzazione. Io tenterei di esplorare la prima, anche come garanzia per la ricostruzione dell’Ucraina, per non lasciare la Russia nelle mani della Cina.