La de-escalation invocata dai governi europei e anche da quello italiano, nonché dai regimi arabo-sunniti, in relazione al conflitto Israele/Iran andrebbe precisata in relazione al tipo e livello di rischio per poter diventare azione (geo)politica realistica ed effettiva.
Contesto geopolitico. Israele, finora, ha attaccato bersagli militari, in particolare il potenziale di arricchimento per ordigni nucleari, fabbriche di vettori missilistici e decapitato un numero limitato di vertici sia scientifici del progetto atomico sia delle milizie fedeli alla teocrazia sciita. Ma non si è spinta oltre pur avendo la capacità di distruggere le infrastutture e strutture del regime che avrebbe implicato enormi danni al sistema civile. Per tale motivo, nel mio gruppo di ricerca abbiamo classificato la fase iniziale dell’attacco, al momento, come “dissuasiva”. Ovviamente abbiamo annotato il discorso di Benjamin Netanyahu che invitava la popolazione iraniana ad insorgere contro il regime dittatoriale teocratico discutendo se l’esclusione dell’attacco al sistema civile fosse una strategia “stimolativa” della ribellione o rientrasse nella definizione di “dissuasione”, optando per la seconda pur non escludendo la prima. Dissuasione esattamente contro chi? Contro il regime teocratico con lo scopo di fargli accettare la doppia sconfitta senza tentare reazioni violente: blocco dell’ambizione nucleare e depotenziamento quasi totale dei suoi bracci armati esterni Hamas, Hezbollah e Siria nonché futura disattivazione degli Houti yemeniti (Ansar Allah) e delle cellule filoiraniane in Cisgiordania. Tale limitazione della proiezione della forza israeliana è stata molto probabilmente concordata con Washington negli ultimi due mesi, via molteplici riunioni tecniche con oggetto il targeting (scelta dei bersagli). Perché Donald Trump non ha voluto, per lo meno in prima battuta, l’eliminazione della gerarchia teocratica ed il depotenziamento delle milizie che la sostengono, portatrici di circa un 20% del consenso interno verso l’80% di divergenti, ma minoranza con tutte le leve del potere economico? Perché Sauditi ed Emirati nonché Giordania sono regimi con organizzazione autoritaria-religiosa sunnita – in forte convergenza con l’America - che pur contro la teocrazia autoritaria sciita vedrebbero come pericolo un esempio di crollo di un regime teocratico islamista anche se il loro più aperto e collaborativo? O perché l’eliminazione del regime teocratico iraniano implicherebbe un’azione militare così intensiva da dover coinvolgere l’America in modo diretto? Forse tutti i due motivi complicati dal nazionalismo identitario diffuso in Iran che pone dubbi sulla mobilitazione popolare antiregime qualora l’Iran subisse un attacco esterno. A cui vanno aggiunti gli interessi di Russia e Cina che non vogliono perdere influenza sull’Iran grazie alla convergenza del regime corrente con loro.
Rischio geoeconomico. Pertanto l’Iran, pur indebolito, ha uno spazio di contromanovra. Dove, in particolare? Blocco dello stretto di Hormuz da dove passa una percentuale notevole del petrolio e gas globale. Anche con pochi mezzi militari residui sarebbe possibile per Teheran. Il danno economico per i Paesi del Golfo sarebbe enorme, ma ancor di più per l’aumento del prezzo di gas e petrolio come conseguenza globale, già valutabile dall’impennata dei prezzi nel giorno di avvio del conflitto cinetico. All’America potrebbe andare bene perché il petrolio da sabbie bituminose (shale oil) è profittevole ad un prezzo non sotto i 70 dollari al barile, ma anche molto male per il meccanismo moltiplicativo dei prezzi di benzina e gas a carico della popolazione, motivo certo di una eventuale perdita di consenso a picco per Trump. Ed enorme problema inflazionistico per gli europei. Inoltre, gli attacchi anglo-americani ed israeliani agli Houti non hanno annientato la loro capacità di colpire il traffico navale verso e da Suez nello stretto di Bab el-Mandeb, rischio pesante per le nazioni mediterranee. Infatti a livello dichiarativo l’Iran resta molto aggressivo. In parte per nascondere la sconfitta, ma in altra parte perché mantiene un notevole deterrente. Infatti la Russia si è candidata come mediatore tra Israele ed Iran valutando che le nazioni occidentali, consapevoli del pericolo economico, avrebbero apprezzato e pressato Israele per, appunto, “de-escalare” il conflitto.
Scenario preliminare. Israele accetterà le pressioni limitative accompagnate dall’impegno di Francia e Regno Unito di difendere Israele se attaccata? Potrebbe farlo in cambio della rinuncia alla demonizzazione dei suoi comportamenti a Gaza ed alla pressione per la creazione di uno Stato palestinese valutato da Gerusalemme come una inaccettabile concessione di vittoria ad Hamas. Ma dovrebbe emergere una soluzione alternativa digeribile dalle nazioni arabe sunnite. Non facile. Tuttavia, se l’Iran, oltre a bloccare Hormuz direttamente e Bab el-Mandeb via proxy (probabilmente con missilistica cinese) mantenesse una postura di attacco ad Israele ed alle basi statunitensi nell’area del Golfo, ci sarebbe un livello in più di escalation. E a questo punto il tema passerebbe ad una consultazione bilaterale tra America e Cina, la seconda ora silenziosa per vedere se potrà trarre vantaggi o meno. Ora, secondo me, siamo qui. L’Italia? Una postura prudente è razionale.
Un collega ha voluto farmi notare che se Israele attacca gli impianti di arricchimento per uso militare dell’uranio ciò vuol dire che Teheran non riesce a comprare missili nucleari da Cina, Russia e Corea del Nord, sottolineando la buona notizia. Io sono più scettico e mi sentirei più sicuro se Israele e Stati Uniti estendessero la deterrenza per evitare casi peggiori.