C’è un fenomeno strano nel dibattito sull’economia. La ricchezza viene prodotta principalmente da piccole imprese – più di 4 milioni di aziende – ma la piccola impresa non è al centro del dibattito stesso e, quindi, oggetto prioritario delle soluzioni ai problemi di stagnazione. Perché?
In Italia sono molto influenti le culture politiche che perseguono una teoria economica “celibe”. Questa si occupa solo della distribuzione della ricchezza, assumendo ideologicamente che venga sempre e comunque creata da un qualche meccanismo capitalistico, senza specificarlo. C’è una variante estrema (Cgil, comunisti, ecc.) irriducibile. Quella moderata (Cisl, sinistra centrista) è più pronta al compromesso con i requisiti di creazione della ricchezza, ma questi intesi come una sorta di male necessario e non parte del processo di diffusione delle garanzie, come in realtà è. La natura “celibe” di questo pensiero è data dal fatto che non sposa creazione e distribuzione della ricchezza. La sua conseguenza politica la si trova nell’idea – statalismo di destra, tradizione colbertiana, bismarckiana, fascista e di sinistra, tradizione sovietica - che lo Stato possa e debba creare ricchezza. Come? Gestendo direttamente o tutelando indirettamente grandi fabbriche che producono beni protetti dalle regole di concorrenza del mercato. Quindi la grande azienda politicamente controllata, direttamente (Iri) o indirettamente (Fiat), è vista dal pensiero “celibe” come l’unico capitalismo che si possa accettare perché il lavoratore riceve un salario garantito indipendente dagli andamenti del mercato. La grande azienda socializzata rende etico il capitalismo. Tale cultura trova immorale l’assunzione di rischio dell’imprenditore, la dinamica del libero mercato che è il vero fattore di creazione della ricchezza, la flessibilità competitiva, e, soprattutto, la piccola impresa non-sindacalizzata né statalizzata. Il punto: l’Italia è fatta da milioni di imprenditori – industriali, artigiani, commercianti, agricoltori - con la cultura del capitalismo di rischio e competitivo, ma circondati da un’architettura politica e culturale che li osteggia. Ciò, oltre che la crisi competitiva, spiega come mai la piccola impresa non sia al centro del dibattito e quella grande sia costretta ad una relazione consociativa con la politica ed i sindacati. Ma come mai, allora, è evoluta un’imprenditoria di massa? Perché nel nord e parte del litorale adriatico è rimasta la cultura delle antiche libertà comunali, del “mezzadro imprenditore”, di un cattolicesimo attivista. Questo simile alla dottrina economica-cristiana del siciliano Don Sturzo: la natura morale del profitto è determinata da come lo si impiega, non dal fatto di perseguirlo. Se lo si usa per dare lavoro e migliorare la comunità, allora è buono, etico. Il piccolo imprenditore italiano settentrionale, infatti, mostra di avere in mente tale codice culturale – la famiglia laboriosa – e ciò spiega il fenomeno dell’attivismo capitalista di massa. Questa analisi, pur frettolosa, serve a far capire che le poche e semplici cose concrete che servono alle piccole imprese per essere più competitive - abolizione dell’Irap, certezza del ciclo dei pagamenti, non dover pagare l’Iva prima di incassarla, detassazione della cessione e acquisizione di imprese, contratti flessibili di lavoro, facilitazioni per l’accesso alla tecnologia, ecc. - non vengono fatte per la dominanza di una cultura politica avversa. Invertirla, chiarendo la bontà tecnica ed etica del fare impresa, è l’atto preliminare per poter connettere la realtà del Paese con il suo modello politico e rendere il secondo capace di mettere le ali alla piccola impresa invece che tagliarle.