In America sta montando un’azione silenziosa, a parte quella critica esplicita del Wall Street Journal e simili, di moderazione dell’Amministrazione Trump sul piano di dazi pericolosi per l’economia dell’America stessa, svolta da attori industriali e finanziari. La stampa europea non sta dando rilevanza a tale azione sia perché, appunto, è riservata per ottenere risultati sia perché non crede, o non vuole credere, che Donald Trump sia bilanciabile. La parte statunitense del mio gruppo di ricerca, invece, ritiene che lo sia e raccomanda agli attori politici europei di negoziare con Washington senza eccessi di contrapposizione, confidando sulla reazione moderatrice interna di Trump che, al netto di simpatie o antipatie, è in un momento di eccitazione, ma correggibile. Tale raccomandazione – che punta a calmare la Francia e ad incanalare entro il vettore euroatlantico il risveglio della Germania - coincide con la posizione esplicita di Giorgia Meloni, sostenuta nella sostanza da Ursula von der Leyen. In sintesi, i miei colleghi americani (per lo più repubblicani centristi come me) invitano a non scommettere contro l’America, anche se è in un momento che appare ribellarsi contro il mondo da essa stessa creato, sul piano del mercato internazionale, perché l’America stessa è più grande di Trump e lo riporterà entro un binario razionale. Ovviamente come ricercatori specializzati in scenaristica ci siamo chiesti: probabilità?
Le analisi che provengono dall’America sono preoccupate. Se si interrompesse oltre misura il flusso delle forniture globali a causa dei dazi l’America andrebbe in recessione complicata da un aumento dell’inflazione. Per inciso, motivo per cui La Federal Reserve non sta riducendo i tassi e teme un futuro prossimo di enorme difficoltà per la politica monetaria. Certamente l’Amministrazione Trump teme questo scenario di impoverimento sul piano politico: se ci saranno troppi impoveriti, difficilmente il Partito repubblicano riuscirebbe a mantenere la (risicata) maggioranza nel Congresso nelle elezioni di medio termine, autunno 2026, e Trump stesso diventerebbe un’anatra zoppa. Al momento i sondaggi non mostrano ancora una tale tendenza. Ma ricerche più selettive ne trovano l’avvio nell’elettorato, motivo di potenziale ribellione dei repubblicani centristi che, pur minoranza nella delegazione congressuale, hanno potere di blocco. E il calo pesante delle Borse statunitensi dall’inizio dell’anno sta mettendo in ansia i pensionati da cui dipende una parte rilevante del reddito. I licenziamenti massivi ed improvvisi nel settore pubblico, motivati da un debito pubblico andato fuori controllo durante l’Amministrazione Biden, spaventano una popolazione più giovane: la mossa è necessaria per l’ordine finanziario, ma può essere fatta in modi meglio analizzati e meno traumatici nonché frettolosi. Parecchi attori industriali statunitensi poi temono la caduta dei marchi americani per ostilità globalmente diffusa. Anche nelle armi: già alcune nazioni hanno deciso di interrompere l’acquisto degli F 35 (caccia di 5° generazione) ed altre armi che sono sostituibili da sistemi europei. Trump ha voluto reagire annunciando il caccia di 6° generazione F 47 (Boeing). Ma penso che arriverà più tardi del Gcap britannico-italo-nipponico già in lavoro (orizzonte 2035-40) e commercializzabile più liberamente del prodotto statunitense. Ovviamente la superiorità tecnologica americana non è sfidabile nel breve e medio termine, ma nel lungo sì dal resto dei G7.
Infatti alcuni think tank statunitensi stanno avvertendo l’Amministrazione che Ue + Regno Unito e Canada + Giappone avrebbero un potere maggiore economico e tecnologico dell’America entro circa 15 anni in uno scenario dove gli Stati Uniti esagerassero con le pressioni negative verso gli alleati. Altri avvertono che il Canada potrebbe associarsi all’Ue e Londra tornarvi via accordo speciale (in esplorazione) rendendo l’America veramente piccola. Altri ancora avvertono che bisogna cercare un ribilanciamento dei flussi commerciali tra America e mondo, ma in modi negoziati e bilanciati, aggiungendo che in caso contrario il dollaro perderebbe il potere condizionante che ha ora (una forma di signoraggio) tagliando di molto la ricchezza interna americana. Altri più geopolitici spiegano che le recenti mosse di Pechino (corteggiamento di grandi industrie occidentali e avvio della procedura per riconoscere lo Yuan come moneta mondiale) sono motivate proprio da questo tipo di scenari: l’America senza europei ed altri alleati nel Pacifico è piccola. Tale attività di allarme rivolta all’Amministrazione Trump ha cominciato a produrre qualche risultato, per esempio il passaggio da minacce generalizzate di dazi contro alleati ad una dottrina di ribilanciamento dei flussi basata sul principio della reciprocità. Ma qui l’enorme problema è la difficoltà degli europei a rinunciare a barriere commerciali in alcuni settori, per esempio l’agricoltura o gli standard ambientali sulle importazioni. E Trump ritiene possibile un ribilanciamento attraverso la minaccia di ritorsioni. Ma dovrebbe considerare che gli europei hanno problemi a cancellare in un colpo tutte le barriere alle merci americane.
Quindi? L’azione più saggia sarebbe un pre-negoziato nel G7 per definire con precisione i dazi e le barriere che possono essere tolti o modulati e quelli che non possono esserlo subito perché richiedono compensazioni. Cioè applicare un metodo funzionalista tra alleati con lo scopo di rinsaldare l’alleanza e non romperla. In conclusione, la probabilità positiva c’è, ma condizionata alla razionalità degli attori geopolitici caricata di una priorità: rafforzare l’alleanza delle democrazie per renderla più potente dei regimi autoritari, condizionandoli. L’Italia? Globale.