Amici e collaboratori di religione ebraica in America ed Europa mi chiedono un’opinione sulla giusta strategia da attuare per difendersi dall’ondata crescente di antisemitismo, semplificando l’alternativa: attiva o passiva? Ho risposto “attiva” e qui spiego il tipo e il perché.
Il tipo: organizzare “Giornate della comprensione” (Day of Understanding) aperte ad un pubblico ampio e registrate per diffusione su televisioni e social. Sarebbe una reazione attiva non polemica e non esente dall’analisi critica dell’attuale governo israeliano, ma informativa con la missione di definire il più e meglio possibile la verità offrendola alla platea dei gentili (goyīm, non ebrei) cercando di rispondere a tutte le loro domande. Infatti la maggior parte dell’informazione sul conflitto tra Israele ed Iran (componente teocratica e milizie, non tutta la popolazione) e i suoi proxy (Hezbollah, nucleo sciita di Hamas, Houthi yemeniti, regime siriano e Partito sciita in Iraq) è sbilanciata: viene enfatizzata la violenza di Israele senza spiegarne i motivi difensivi.
Il perché. Nel periodo delle leggi razziali nella Germania nazionalsocialista e nell’Italia fascista pre Olocausto le comunità ebraiche tennero prevalentemente un atteggiamento passivo non credendo che la repressione sarebbe arrivata al punto dello sterminio. In realtà, la passività non fu totale perché un certo numero di ebrei, o con famigliari ebrei, migrarono in America ed altre aree ritenute sicure per scappare dalla persecuzione. Per inciso, il potere cognitivo conquistato dall’America nella Seconda guerra mondiale, in particolare la bomba atomica, fu marcatamente spinto dalla migrazione degli scienziati ebrei tedeschi, italiani e di altre nazioni occupate dai nazisti, per esempio Enrico Fermi, Albert Einstein, ecc.). Ma la gran parte degli ebrei europei – credenti o non credenti con origine famigliare ebraica – restarono passivi. E ciò ne indebolì la resistenza: probabilmente non sarebbe servita a cambiare la persecuzione, ma forse avrebbe permesso a più ebrei di evitare lo sterminio via organizzazione di una “Comunità di difesa”. Infatti Israele, memore della passività detta, dalla nascita ha trovato come fondamento la difesa di tutti gli ebrei nel mondo.
Qualora prendessero vita le “Giornate delle comprensione” – gli ebrei socialisti di Bologna stanno facendo un’iniziativa preliminare in questa direzione, comunicando a tutti – di cosa sarebbe importante parlare?
Suggerisco di iniziare da una domanda chiave: secondo voi, non ebrei, cosa dovrebbe fare Israele circondata da molteplici forze ostili che ne vogliono la distruzione totale? Molti palestinesi potrebbero rispondere: non doveva nascere. Ma è nata nel 1948. Alcuni ebrei potrebbero dire che è stato un errore del sionismo cercare di costruire una nuova Israele dove stava quella antica, magari aggiungendo che Dio ha voluto la diaspora, cioè la diffusione degli ebrei nel mondo. Ma possiamo dare colpe ai sopravvissuti dell’Olocausto, in quei tempi, se hanno cercato un luogo sicuro dove fare comunità? In particolare, non erano autonomi perché impoveriti e stremati. Riguardate il vecchio film “Exodus” per averne una pur blanda idea. Ma ora i palestinesi potrebbero dire che Israele rinata è un oppressore crudele da combattere con tutti i mezzi. Qui farei parlare un palestinese di fede islamica che è cittadino di Israele: può votare il suo partito islamico, godendo della libertà democratica, e vivere bene. Ma non benissimo, potrebbe dire un palestinese denunciando una negazione ai palestinesi cittadini di Israele degli accessi al potere. Sul punto un ebreo potrebbe chiedere: ma tu migreresti in uno Stato palestinese se questo prendesse forma? Non è escludibile un dubbio in quel palestinese. Qui uno storico neutrale potrebbe citare le enormi somme di denaro che il mondo islamico ha fornito ai palestinesi, per decenni, allo scopo di tenere la popolazione palestinese mobilitata contro Israele. Mi scuso dell’esempio cervellotico, ma qualora fosse possibile, un dialogo di questo tipo sarebbe un avvio di chiarimenti utili alla pacificazione.
Ma c’è l’evidenza che la pacificazione non è voluta dall’Iran che utilizza la questione palestinese come strumento per mostrarsi miglior difensore degli islamici in competizione con l’Arabia saudita e gli altri regimi arabo-sunniti che hanno siglato trattati o accordi di pacificazione con Israele. Qui il dialogo appare non possibile e prevalgono i rapporti e le azioni di forza. Ma l’apertura al dialogo serve a far riflettere chi demonizza Israele e con essa gli ebrei: secondo voi, cosa avrebbe dovuto fare Israele? Cedere al ricatto degli ostaggi presi da Hamas e rinunciare all’attacco a Gaza? Rinunciare all’offensiva contro Hezbollah restando esposta agli attacchi missilistici oppure indebolire tale organizzazione depotenziandola? In sintesi, restare passiva o essere attiva contro gli sterminatori di ebrei? Come precursore lo si chieda ai cittadini di Israele. I dati correnti mostrano che la maggioranza vuole una risposta attiva e dissuasiva mentre una minoranza è più favorevole alla passività. Questa minoranza, però, non va sottovalutata: il governo ha esagerato nell’applicazione della violenza, esponendosi alla criminalizzazione. Ma aveva alternative? Ne discutano apertamente i diversi partiti israeliani coinvolgendo le comunità ebraiche nel mondo ed anche i loro demonizzatori. Dove il punto critico è che Israele ha rinunciato alla priorità di salvare gli ebrei dovunque e comunque quando ha rifiutato il ricatto di Hamas: se attacchi uccidiamo gli ostaggi. Ma il governo lo ha fatto per dissuadere altri rapimenti ed uccisioni o per mancanza di lucidità prudenziale? O per disperazione? Se ne parli nelle giornate della comprensione, spero il primo esempio in Italia. Veritas est pacem.