Sempre più attori di mercato ed analisti, nell’area euroamericana, vedono il rischio di recessione maggiore di quello di inflazione. Ma le Banche centrali statunitense (Fed) ed europea (Bce) restano al momento silenziose - producendo ambiguità invece di fiducia - sull’avvio di un taglio del costo denaro e suo ritmo. Momento delicato.
E’ ancor più delicato perché nello scenario si è inserita una forte caduta delle Borse poi seguita da un rimbalzo, però incerto (volatilità), che ha fatto aumentare la pressione, in particolare, sulla Fed per un taglio molto forte e rapido dei tassi allo scopo di ridare spinta all’azionario ed al suo effetto trainante sul ciclo economico generale statunitense a sua volta locomotiva di quello globale, tra cui l’europeo. La mia opinione, basata sugli scenari prodotti dal mio gruppo di ricerca, in questo caso convergenti con parecchi analisti, è che la Fed dovrebbe resistere a tale pressione: se tagliasse troppo e troppo presto rischierebbe di confermare una crisi che invece non c’è, con esito inverso a quello voluto. Ma, detto questo, la Fed dovrebbe dare un segnale più forte di fiducia economica avviando un taglio graduale del costo del denaro a settembre e comunicando al mercato che lo calibrerà in relazione al ritmo di disinflazione che è connesso alla tendenza recessiva, in atto pur lenta, dell’economia statunitense. Riuscirà la Fed a trovare la giusta via tra restrizione monetaria e condizioni che evitino un momento recessivo che poi potrebbe contagiare altre aree monetarie, tra cui l’Eurozona? Vediamo. L’incosciente politica fiscale dell’Amministrazione Biden, come è tipico delle sinistre quando governano, ha prodotto un megadebito pubblico che si è trasformato in eccesso di liquidità nel sistema, causa di inflazione che richiede interventi correttivi disinflazionistici e restrittivi: ora la liquidità nel sistema si sta riducendo grazie alle restrizioni, ma resta un contrasto tra politica fiscale e monetaria che non rende semplice le decisioni della seconda. Tuttavia, la Fed, diversamente dalla Bce, ha nel proprio statuto una doppia missione: contenere l’inflazione ed anche la disoccupazione. Considerando che gli effetti reali di una decisione di politica monetaria hanno tempi tra i 12 e i 18 mesi, è calcolabile che dovrebbe iniziare subito il taglio graduale dei tassi, anzi doveva a maggio-giugno, per evitare l’innesco di un momento recessivo pesante. Poiché la transizione tra cicli economico-finanziari implica sempre momenti di turbolenza, la Fed è prudente: aspetta i dati di contingenza prima di decidere. Ma ciò la porta in ritardo reattivo in relazione alle situazioni. Inoltre indebolisce l’effetto fiducia che dovrebbe essere il mestiere primo di un’autorità monetaria. Quindi se dall’Italia potesse arrivare un messaggio alla Fed questo sarebbe: hai abbastanza dati per comunicare un percorso a tappe graduali sia per tenere sotto controllo l’inflazione residua sia per evitare una recessione pesante che poi impatterebbe anche su di noi. Quindi fatti guidare dalla responsabilità del ruolo e non nascondere l’indecisione dietro la scusa che devi aspettare i dati. Ma sono speranzoso che la Fed veda i dati già evidenti e agisca bene di conseguenza.
Tuttavia, ci sono i primi segni di un gap sistemico di fiducia nel mercato. Alcuni attori finanziari, come detto, chiedono alla Fed un forte atto espansivo, subito. Ma altri, con visione di geopolitica economica, annotano che manca un pilastro politico per la produzione della fiducia, da cui far derivare un meccanismo tecnico per generare capitale abbondante per la funzione del prestatore di ultima istanza che è il luogo concreto per la produzione della fiducia economica e finanziaria stessa. L’America resta superpotenza, ma non è più grande abbastanza per essere pilastro singolo del mondo ed è sfidata da potenze emergenti. La giusta scala per un pilastro della fiducia adeguato sarebbe quella di un G7 che includa nazioni compatibili e costruisca accordi economici e monetari più profondi. Per inciso, questa non è un’idea nuova: il G7 ha già da decenni un accordo di collaborazione per la gestione di emergenze finanziarie globali. Pertanto non sarebbe esotico far evolvere un tale accordo per casi eccezionali verso un meccanismo permanente di garanzia. Come? Generando una metamoneta basata sui valori di dollaro, euro, yen, sterlina, ecc., entro un raggio di oscillazione limitata dei cambi tra loro. Il vantaggio sarebbe quello di produrre capitale finanziario in metamoneta (il credit), senza pesare subito sui bilanci delle nazioni partecipanti perché garantiti da un loro accordo che costituisca un bilancio a parte, metanazionale. Tale passo, oltre alla deterrenza verso sfidanti bellici, creerebbe una potenza monetaria enorme, superiore a qualsiasi sfidante e quindi precursore per negoziati di moderazione dei conflitti. Sul piano del realismo, nel breve e medio termine è improbabile che le democrazie riescano a fare un passo marcato verso questa direzione. Ma nel dicembre 2023, quando augurai buon 2026 perché i dati economici, finanziari e geopolitici promettevano metastabilità (turbolenze forti, ma non destabilizzazione sistemica) nel 2024-25, con i miei ricercatori mi chiesi come si sarebbe potuto creare una nuova stabilità globale negli anni successivi. Furono esplorati uno scenario G2 (compromesso tra America e Cina), uno multipolare e quello G7+ sopra abbozzato. Il terzo era il miglior produttore di fiducia globale. Il fatto che non possa a breve diventare un programma reale non impedisce ai governi di iniziare a studiarlo, accorgendosi che ci sono già tendenze e motivi verso questo orizzonte. Ha senso citare una strategia del genere in Italiano? Certo: Roma è nel G7 e le soluzioni ai suoi problemi verranno più da lì che dall’Ue.