Oggi e domani i ministri economici dell’eurozona tenteranno di chiudere l’accordo tecnico sulla revisione del Patto di stabilità che dovrà essere sancito a livello di capi di governo il 22 e 23 marzo. Si può osservare, prima di tutto, che il negoziato è stato tenuto il più possibile riservato, con l’idea, nemmeno tanto nascosta, di arrivare ad un compromesso tra “tecnici” prima che i “politici” possano fare guai. La linea tecnocratica, ispirata silenziosamente dalla Banca centrale europea, persegue la strategia di salvare l’architettura originaria del Patto resistendo alla pressione per allentarne i vincoli da parte degli Stati che vorrebbero usare di più il deficit per tamponare una stagnazione economica che sempre di più si sta trasformando in crisi sociale, per esempio l’aumento della disoccupazione in Francia e Germania. E tale linea sta generando un compromesso così sintetizzabile: non si cambia nulla, ma si crea uno spazio più ampio di violazione senza sanzioni.
Quale valutazione dare alla tendenza detta, se verrà confermata? E’ dal 2001 che Francia e Germania, e tanti altri, non rispettano più il limite del 3% di deficit annuo ammesso. E, a dati correnti, continueranno a farlo nei prossimi anni. I Paesi con minor debito (entro il parametro del 60% del Pil) hanno chiesto inizialmente di poter usare tale loro qualità per avere il permesso di sfondare senza sanzioni il tetto di deficit annuo. Idea destabilizzante per due motivi. Primo, creerebbe una disparità tra Paesi ad alto debito storico e quelli a basso. Infatti la diplomazia italiana – il nostro debito è sul 106% del Pil - ha faticato non poco per eliminare questa clausola spinta da Parigi e Berlino i cui debiti cumulati viaggiano attorno al 60% del Pil stesso. Secondo, un debito viene valutato come stabilizzato e gestibile se scende e non certo se sale, qualunque sia la sua percentuale del Pil. In tal senso l’Italia ha avuto come alleata la Bce nel contrastare l’ipotesi di basare il rispetto del Patto alla quantità di debito. Evitato questo pericolo, tuttavia, restava il problema di rivestire di legalità europea il fatto che i suoi Paesi non potevano né volevano continuare a rispettare il Patto. Ciò è stato fatto, appunto, allungando i tempi richiesti ad uno Stato per rientrare nei limiti del 3%, di fatto eliminando le sanzioni, e riconoscendo delle giustificazioni più ampie per le violazioni. La lista di queste è ancora oggetto di discussione. Si scontrano due idee. La prima è quella di definire dei “deficit buoni”, tali perché porteranno a miglioramenti futuri, cioè a giustificare gli sfondamenti dovuti a politiche di riforma delle pensioni o di riduzione delle tasse o di grandi investimenti infrastrutturali. La seconda, rigorista, è quella di evitare una tale lista e di valutare caso per caso, e a posteriori, le situazioni per lasciare intatto il concetto che, qualunque sia il motivo, andare oltre il 3% di deficit resta una violazione. Vuol dire: si può essere comprensivi, ma bisogna evitare la formalizzazione delle violazioni. La sensazione è che si arriverà ad un compromesso con questi contenuti. Se così sarà, quale sarà il nuovo scenario? Non molto diverso da quello attuale. Gli Stati conquisteranno un po’ più di spazio di deficit, ma non al punto da poter fare riforme forti che richiedono deficit temporanei piuttosto marcati, per esempio le politiche di riduzione delle tasse. Quindi la valutazione della tendenza in atto è negativa perché: (a) comunque il Patto perderà rigore; (b) senza, in cambio, permettere agli Stati scelte sufficientemente forti per modificare le condizioni che tengono stagnante e decompetitiva l’economia dell’eurozona.