Gli eventi alluvionali recenti in Veneto e Lombardia, e dintorni, e quelli di siccità nel Sud italiano sono segnali che confermano la necessità di lanciare un programma nazionale di “ecoadattamento” preventivo, pur gestito dalle Regioni, finalizzato al controllo delle acque quando sono troppe o troppo poche affinché la loro disponibilità sia sempre ottimale per le attività economiche e per la popolazione.
Possibile? Sul piano tecnologico certamente. Costoso? La risposta dipende dal calcolo del danno potenziale combinato con la probabilità di un evento estremo, tipicamente la formula per calcolare il rischio. Poiché il rischio sta variando a causa del cambiamento climatico, aumentando con spazialità diffusa e non facilmente computabile con metodi di zonazione, tale formula dovrebbe essere corretta da un’analisi della vulnerabilità di un territorio in relazione ad eventi estremi alluvionali o siccitosi allo scopo di minimizzarne l’impatto. Tale metodo è in avvio in Italia, per esempio la creazione di bacini di sfogo per permettere di dirottare acque alluvionali affinché siano meno distruttive. Ma ci sono evidenze che tale metodo non è sufficiente in caso di eventi estremi, considerando che i dati dell’ultimo ventennio ne mostrano un forte aumento in tutto il mondo. Già nel lontano biennio 1988-90, quando fui membro del gruppo di ricerca che doveva consigliare all’allora Segretario generale dell’Onu le politiche di prevenzione per mitigare gli effetti dei disastri naturali da avviare nel decennio successivo (UN – IDNDR) enfatizzai la priorità dell’ecoadattamento, perché gli scenari meteofisici già prevedevano l’aumento delle temperature, ma avvertendo che la prevenzione aveva problemi di consenso in tutto il mondo (coordinai io una ricerca socio-economica plurinazionale) e che bisognava inventare qualcosa di nuovo per mostrarne la razionalità economica. Il concetto non passò pur in un linguaggio che raccomandava prevenzione. Ma adesso ci sono dati sufficienti per farlo passare: ecoadattamento rapido, ecologia artificiale.
Dai primi Anni 90 ha cominciato a svilupparsi l’idea che per ridurre gli effetti estremi bisognava decarbonizzare il pianeta per ridurre l’effetto serra che lo stava riscaldando in modi pericolosi. Ma già in quegli anni formulai scenari, con il mio gruppo di ricerca in materia economica, per i quali se l’analisi degli scienziati decarbonizzanti fosse stata vera, allora i tempi di decarbonizzazione mondiale sarebbero stati troppo lunghi per evitare il problema. E se fossero stati accelerati avrebbero comportato un conflitto tra economia ed ambiente nelle nazioni industrializzate, con il rischio di un impatto devastante sulla ricchezza delle popolazioni. Per tale motivo enfatizzai la strategia di ecoadattamento dove in decenni i sistemi umani venissero schermati dagli impatti di fenomeni termici e metereologici estremi, mantenendo la viabilità pur in un regime climatico diverso. Tale soluzione ecoadattiva mi convinse di più quando ebbi evidenza dei conflitti all’interno della comunità delle scienze dedicate dove una parte diceva che la decarbonizzazione rapida era l’unica soluzione mentre un’altra diceva che le cause del riscaldamento erano altre. Un economista dipende dall’input che viene dalle scienze fisiche. Quello che arrivava era ambiguo, reso ancora più vago dall’evidenza che molti governi “carbonizzanti” non avevano alcuna intenzione di decarbonizzare in tempi brevi per non rischiare un collasso economico. Pertanto, istruì il mio gruppo di ricerca nel seguente modo: l’unico dato certo (quello della Nasa) è che c’ è un riscaldamento come c’è stato in fasi termiche opposte per milioni di anni; le cause non sono chiare, ma è chiaro che i sistemi umani devono adattarsi a nuove condizioni climatiche e quindi studiamo le strategie del come senza contare troppo su un effetto decarbonizzante, non perché lo neghiamo, ma perché vediamo che se fosse efficace in teoria non sarebbe attuabile in pratica nei tempi di salvaguardia indicati da chi ci crede. In sintesi: ecoadattamento.
La priorità va al ciclo delle acque. Per ogni territorio vanno simulate condizioni estreme alluvionali e nei casi dove le barriere non risultano sufficienti è necessario “terraformare”. Ci sono le competenze? L’idrogeologia combinata con la meteorologia le ha. Sull’altro lato del problema ci sono siccità talmente prolungate da avviare una desertificazione. Impressionante quelle nell’area di Barcellona ed in Sicilia, adesso. La soluzione è costruire dissalatori di grande scala nelle aree che mostrano vulnerabilità, però con dimensioni e tubazioni che potrebbero rifornire aree circostanti colpite a sorpresa. In sintesi, va fatta una mappa di un futuro ciclo chiuso dell’acqua oggi possibile grazie all’intelligenza artificiale, le osservazioni satellitari, ecc. Questa attività di prevenzione non necessariamente eliminerà tutte o completamente le vulnerabilità, ma le ridurrà. E ciò permetterà alle assicurazioni di calcolare il rischio, ora spesso incomputabile, alleggerendo il costo di interventi di rispristino con capitale pubblico in caso di fenomeni eccezionali. Uno potrebbe chiedere: ma perché spendere soldi di prevenzione per eventi rari? Perché i dati dicono che sono meno rari e comunque siamo in una fase di incertezza ambientale che comporta il rischio di danni superiori al costo di prevenzione. Un altro potrebbe chiedere: ma servirà molta più energia e a costo minore per creare un sistema di protezioni contro il mutamento climatico? E’ probabile, per esempio la microclimatizzazione urbana ed agricola. Per tale motivo l’ecoadattamento implica il ricorso massivo alle (mini) centrali nucleari di nuova generazione. C’è da fare tanta ricerca, ma questa è la via giusta. Non lo è l’attesa di una politica decarbonizzante ancora troppo incerta e lunga senza far niente nel mentre.