E’ stato sottovalutato il cambio di strategia da parte di Israele qualche giorno fa: non solo attaccare per difesa i terminali dell’Iran (Hamas, Hezbollah), ma fare deterrenza diretta contro l’Iran stesso. Cioè attaccare il padrone e non solo la servitù. Lo scopo è stato quello di costringere Teheran – via attacco al suo centro di comando in Siria - a reagire altrettanto direttamente per forzare l’America e, soprattutto, i regimi arabi sunniti a difendere attivamente Israele stessa. L’Iran ha attuato un contro attacco diretto in parte telegrafato e senza mirare a fare vittime (per pressione calmierante cinese, russa e per paura di una risposta israeliana destabilizzante), ma in parte anche finalizzato alla saturazione delle difese aeree ed antimissile israeliane per comunicare che il prossimo sarebbe stato più penetrante. Emirati, sauditi e Giordania, questa con azioni antidroni iraniani, i primi con segnalazioni radar, si sono aggiunti alla difesa aerea americana e britannica (con un certo supporto francese?) per sostenere la difesa israeliana, così segnalando ad Israele che non era sola e che quindi poteva limitare la risposta. Israele ha colto il messaggio ed ha fatto un contro-contro attacco minimo all’Iran, ma segnalando una potenziale capacità distruttiva superiore, pur meno spettacolare. Gerusalemme ha così mostrato un potere cognitivo, nonostante i dissidi interni, e tecnologico superiore amplificato implicitamente dal fatto di essere una potenza nucleare anche se non dichiarata. Ora siamo arrivati qui: come andrà avanti?
Il primo passo è capire se la svolta strategica detta di Israele sia stata concordata o meno con l’America. Sono dati segreti, l’America ha dichiarato che non sapeva “prima” dell’attacco israeliano in Siria di qualche giorno fa dove è stato ucciso un capo operazioni iraniano ed una serie di ufficiali superiori filo-iraniani nel consolato dell’Iran a Damasco. Poi è stata silenziosa anche sull’uccisione di tre figli del capo di Hamas, attuata da Israele per forzare più decisamente l’Iran a reagire direttamente per non perdere il comando sul movimento. Pertanto è probabile che Israele abbia sorpreso l’America, costringendola a predisporre una superdifesa di Israele in vista della reazione iraniana. Tale superdifesa ha svelato che gli Stati Uniti hanno con i regimi sunniti citati una convergenza operativa superiore a quanto pensato. E mostrato più chiaramente che questi regimi stessi vogliono limitare, se non annullare, l’influenza iraniana nell’area. Quando Joe Biden ha detto a Benjamin Nethanyau di “accontentarsi della vittoria ottenuta”, intendendo il passaggio di Israele da percepito massacratore di gazawi a bastione difensivo anti-iraniano nella regione e oggetto di difesa assoluta da parte dell’America nonostante le divergenze ha espresso un punto forte sul piano del realismo a favore di Israele. Ma il consiglio di guerra in Israele, e non solo Nethanyau come persona, non è del tutto convinto della totale volontà pro-Israele di Biden, pur apprezzandola. Quindi è probabile che decida sia di essere più convergente con l’America sia di tenerla sotto una pressione tale da forzarla ad essere pro-israeliana. Ciò mantiene instabile, pur meno, lo scenario.
Un altro motivo di instabilità è che in Iran è sempre più evidente la divergenza tra Ayatollah che non vogliono rischiare l’implosione del regime con eccessi di aggressività diretta e milizie che, invece, vogliono perseguire la distruzione di Israele (in realtà come strumento per la tenuta di un regime che offre loro vantaggi, ma che è traballante sul piano del consenso interno). Quindi Israele ha motivi per non fidarsi del tutto delle garanzie di Biden e deve restare pronta a forzarle. Tuttavia, il segnale più importante viene da Giordania, Arabia, Emirati ed Egitto. Non vogliono che Israele esageri a Gaza perché le loro popolazioni potrebbero ribellarsi a regimi troppo tiepidi con Israele stessa, ma vogliono che l’Iran non diventi una potenza regionale capace di condizionarli. Tale situazione, qui molto semplificata, potrebbe portare Israele ad allearsi con alcuni clan palestinesi-sunniti di Gaza per l’azione anti Hamas, dando in cambio risorse ed immunità, e ad aumentare la pressione potenziale contro Hezbollah nel Libano meridionale nonché sulla Siria filo-iraniana, ma qui con attenzione molto selettiva perché zona di influenza russa.
In attesa di capire come si muoverà lo scenario è però chiara la priorità dell’interesse italiano: eliminare la capacità degli Houthi yemeniti filoiraniani di minacciare il traffico via Mar Rosso/Suez tra Pacifico e Mediterraneo. Ciò implica che gli iraniani non diano più missili e droni agli Houthi basati su tecnologia cinese e russa, nonché nordcoreana. Cosa può fare Roma nell’anno in cui ha la presidenza del G7 per rendere viabile il Mar Rosso e ridurre il pericolo di minori traffici a danno di Grecia e porti italiani? Molti specialisti di settore dichiarano che il danno atteso non è così pesante. Ma i dati a me disponibili mostrano che se la minaccia Houthi/iraniana durasse ancora nei prossimi mesi all’imbocco del Mar Rosso (stretto di Bab el-Mandeb), tali danni sarebbero rilevanti per l’Italia. Da un lato, è comprensibile che il governo italiano debba muoversi con molta prudenza in un teatro complesso – se l’Iran bloccasse lo stretto di Hormuz, Arabia, Emirati, Kuwait e Qatar avrebbero grossi problemi - e lo sta facendo bene. Dall’altro, ha motivi per spingere alleati (il gruppo G7 più Australia, Corea del Sud, India ed altri del Pacifico) e co-interessati (Egitto e Arabia in particolare) tra cui una Israele tornata potenza razionale per trovare soluzioni.