Ci sono abbastanza dati per tentare un primo scenario relativo alla ricostruzione delle aree colpite dal disastro nel Sud – Est asiatico. Questa attenzione ha natura, prima di tutto, morale: tra qualche giorno le notizie della catastrofe spariranno dalle prime pagine dei giornali e milioni di persone in bisogno perderanno quella pressione delle opinioni pubbliche dei Paesi ricchi che finora ha incentivato i governi a donare le risorse utili per la fase di primo soccorso. Quando saranno finiti i miliardi di euro impiegati per stabilizzare la popolazione disastrata, tra un paio di mesi, emergerà il fabbisogno per i finanziamenti della ricostruzione finale. Questo diventerà il tema più critico in quanto determinerà o la soluzione positiva dell’emergenza oppure la creazione di una baraccopoli perenne fonte di un “secondo disastro” fatto di disoccupazione e degrado. Per tale motivo è utile capire quali condizioni potranno evitarlo e, tra queste, quelle che in qualche modo possiamo influenzare.
Tale analisi richiede un valutazione spcifica per ciascun Paese. La Thailandia (5.000 morti per lo più nell’area di Phuket) ha un problema solo relativo di ricostruzione fisica, ma ne ha uno notevole di mantenimento della sua economia turistica che contribuisce per circa il 15% alla formazione del Pil nazionale. Per questo Paese, allo scopo di evitare una catastrofe occupazionale, la priorità è quella di finanziare il ripristino della sua attrattività turistica. Cosa che necessariamente implicherà l’offerta di vacanze scontatisisme per contrastare la brutta immagine corrente e richiederà anni per tornare a volumi soddisfacenti. Questo è un tipico caso dove si dovrà sostenere le unità economiche con crediti superagevolati. E sarà utile un fondo – non a perdere – internazionale di supporto. Molto diverso e più grave è il caso dello Sri Lanka (30.000 morti). Il Paese, che negli ultimi anni è riuscito a raddoppiare il reddito medio pro-capite (sugli 800 dollari), ha la sua costa orientale totalmente devastata, una guerra civile in atto ed un governo senza i mezzi per fare alcunché. In tale caso sarà necessario un programma di aiuto totale (parecchi miliardi di euro) con risorse esterne, con la complicazione di dover almeno congelare la guerra per permettere la riorganizzazione di un minimo di sviluppo. Più che l’Onu, in tale caso servirebbe un comitato di nazioni garanti che si faccia carico dei costi e della pressione politica per la pacificazione.
L’India ha un sistema di governo capace di gestire la normalizzazione delle aree disastrate, per altro di scala equivalente ad un problema locale più che nazionale. Il fabbisogno di ricostruzione totale in Indonesia è concentrato nell’isola di Giava. La scala economica complessiva della nazione è tale da non aver enormi problemi di risorse per compierla. Quello che manca può essere ottenuto permettendo a Giakarta di non pagare per qualche anno, o diluire, gli interessi del suo enorme debito esterno (82,1 miliardi di sollari). I governi creditori sarebbero d’accordo, ma alla condizione che i denari vengano usati per la ricostruzione. Condizionalità che il governo indonesiano non pare voler accettare. Inoltre l’area disastrata (musulmana) è zona di guerra. Tale caso presenta complicazioni più politiche e geopolitiche che strettamente economiche. Problema che si trova anche in altri casi: l’India non ha voluto nemmeno gli aiuti per timore di condizionamenti esterni, Myanmar (Birmania, dittatura militare) non ha nemmeno fornito dati per lo stesso motivo, negando il disastro ecc. Probabilmente dovremo premere su questi governi affinché le ragioni politiche non blocchino gli aiuti ai loro cittadini in bisogno.