L’attenzione è sul faticoso compromesso in materia di nuovo “Patto di stabilità e crescita” a livello Ue che ne segnerà il destino nel lungo termine. Ma dovrebbe essere portata anche sull’orientamento della Bce, il cui direttivo si riunirà il 14 dicembre, che sarà perfino più rilevante per il destino di breve-medio periodo con conseguenze, però, lunghe.
Il punto: come si comporterà la Bce in relazione ad una decrescita più rapida del previsto dell’inflazione mostrata dai dati recenti? Ridurrà il costo del denaro nella primavera del 2024, in estate, alla fine o oltre? E’ improbabile che nella riunione del 14 dicembre vi siano decisioni che anticipino con precisione la linea prospettica di politica monetaria perché da tempo la Bce ha preferito prendere una posizione in base ai dati correnti. Ma questi mostrano una disinflazione, appunto, rapida. La Bce prenderà una posizione corrispondente in tempi utili, dando il via ad un’espansione economica, oppure prolungherà la stretta portando l’Italia e l’Eurozona in recessione? Molte famiglie italiane fanno fatica a pagare il mutuo (variabile) cresciuto tanto e rapidamente per l’aumento del costo del denaro. Ciò impatta su consumi e risparmi. Un numero preoccupante (quasi il 45%) delle famiglie non riesce a risparmiare. Anche per questo il governo ha deciso di ridurre il cuneo fiscale nelle buste paga per aumentare la liquidità disponibile ai lavoratori dipendenti senza aumentare il salario complessivo che sarebbe una misura inflazionistica. Ma il ritmo dello stress sistemico, misurabile in grado di impoverimento, è forte e rischia di eccedere le contromisure. Una riduzione del costo del denaro in tempi utili sarebbe un salvavita. Così come lo sarebbe per molte piccole aziende dipendenti dal credito bancario diventato sia troppo costoso sia eccessivamente selettivo. Inoltre, sarebbe un sollievo per il bilancio dello Stato ora caricato di maggiori oneri per l’emissione di titoli di debito a scapito di altre spese necessarie. Per inciso, ovvio: c’è una relazione tra riduzione dei tassi, peso del debito e regole europee, ora in fase di negoziazione, per ridurlo, molto condizionata dalla politica monetaria. In sintesi, una simulazione macro appena fatta dal gruppo di ricerca dello scrivente individua – in base ad un calcolo della “velocità angolare” di disinflazione nell’Eurozona – nel marzo/aprile del 2024 il momento ottimale (probabilistico) per iniziare a ridurre i tassi: tempo di incrocio tra disinflazione necessaria e stimolo monetario espansivo con effetti ottimistici sugli investimenti privati e sulla riduzione dei costi delle famiglie.
Ma i segnali dalla Bce sono ambigui e paiono tendenzialmente contrari a questa data. Da un lato, ha preso atto che i dati mostrano la non necessità di ulteriori rialzi dei tassi. Dall’altro, ha fatto intendere l’indisponibilità ad accelerare i ribassi. Pertanto c’è il rischio che il costo del denaro, e sue conseguenze restrittive, resti troppo elevato in fase recessiva, peggiorandola. Bisogna considerare anche il rischio che un ribasso del costo del denaro troppo anticipato per evitare una recessione pesante porti nuovi impulsi inflazionistici. O sottovaluti complicazioni geopolitiche che alzino i prezzi energetici e delle materie prime costringendo la Bce a dover rialzare i tassi. Ma il rischio di “inflazione da domanda” (surriscaldamento dell’economia) è molto basso vista la congiuntura. Quello di “inflazione da offerta” potrebbe essere più alto, ma i prezzi di molte materie prime stanno scendendo. Gas e petrolio un’incognita? Pur i prezzi non andando verso i minimi è improbabile che tornino ai massimi. Inoltre, l’inflazione da offerta si combatte con la geopolitica e non con la politica monetaria. Pertanto si potrebbe rischiare un addolcimento abbastanza rapido della restrizione monetaria. Mentre sarebbe catastrofico per l’economia prendere l’altro rischio, cioè quello di tenere alto il costo del denaro più a lungo della disinflazione. Poiché c’è incertezza globale la Bce non può prendere il rischio di addolcire le restrizioni e poi applicarle di nuovo, producendo un impatto come andamento destabilizzante a “W” o a “L” sulla crescita? In realtà questo rischio ha minore probabilità di quello della riduzione dei tassi nei tempi detti.
Detto ciò sul piano analitico, resta però centrale l’azione politica dell’Italia. Un suggerimento non richiesto è che il governo faccia filtrare indirettamente l’opzione di modificare lo statuto della Bce portandolo dalla sola missione di controllo dell’inflazione a quella aggiuntiva di limitazione della disoccupazione, come fatto dalla statunitense Fed. Troppa deterrenza contro l’area rigorista? Se ben calibrata sarebbe uno strumento negoziale forte: se il Patto è di stabilità e “crescita” non si capisce perché lo statuto della Bce sia solo di “stabilità”. Scritto semplicemente, la Bce avrebbe l’obbligo anche di evitare impoverimenti cosa che ora non ha. In tale modo di ragionare, però, l’Italia dovrebbe fare uno sforzo nazionale: creare un Fondo italiano di bilanciamento (Fib) a cui conferire almeno 250 miliardi di patrimonio pubblico disponibile (un complesso di immobili, partecipazioni e concessioni stimabile tra i 600 e 700 miliardi) da usare per un’operazione di valorizzazione per scopi di dedebitazione in 10 -15 anni. Ma con un effetto immediato di minor costo di rifinanziamento del debito e quindi di maggiore spazio fiscale per detassazione ed investimenti. Il governo, in situazione d’emergenza, ha già acceso una dismissione secca di 20 miliardi di patrimonio. Va ampliata con un’operazione maggiore, strutturale, differita e valorizzante per evitare svendite: il Fib, appunto.