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Carlo A. Pelanda
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Carlo Pelanda: 2004-9-6L' Arena,
Giornale di Vicenza,
Brescia Oggi

2004-9-6

6/9/2004

Il rischio di neoprotezionismo

L’economia globale è in crescita, quelle europea ed italiana in ripresa. Ma c’è un nuova ombra nel prossimo futuro: sia in America sia Europa sta crescendo il numero di persone che perdono lavoro o quote di salario a causa della concorrenza globale. A cui corrisponde una – per ora minima – reazione neoprotezionista da parte dei governi. Ciò apre uno scenario delicatissimo e non remoto: se non si trova un modo di rendere più concorrenziali i paesi ricchi le loro classi medie in difficoltà chiederanno sempre più protezioni che potrebbero compromettere l’apertura globale dei mercati e, con, questo la ricchezza di tutti. In sintesi, sta montando un rischio di protezionismo che richiede contromisure piuttosto urgenti.  

 La globalizzazione, come noto, mette in contatto sistemi ad alto costo e a basso. In un  mercato aperto è naturale che le imprese spostino più produzioni possibili dai primi ai secondi nei settori dove tale mossa sia possibile e generi risparmi. Ciò avviene in due forme: delocalizzazione delle imprese e/o trasferimento di pacchetti di lavoro in aree o sistemi a costi minori (outsourcing).  Scelta che le imprese devono fare per forza perché se un  concorrente usa tale opportunità e loro no poi questo le butta fuori mercato. Tale fenomeno tende a ridurre il numero di posti di lavoro ed i salari  dei Paesi ricchi nei settori esposti alla concorrenza di quelli poveri od emergenti. La teoria economica standard non vede un problema in tale fenomeno, ma un’opportunità. In tal modo i Paesi poveri, infatti, ricevono investimenti che li modernizzano e fanno crescere rendendoli “emergenti”, per esempio Cina ed India. E quelli ricchi trovano più domanda globale per le esportazioni dei loro prodotti a maggiore qualità e prezzo. Alla fine, la globalizzazione, cioè un mercato aperto e libero che si espande internazionalmente senza frontiere, porta più ricchezza a tutti. Ma alla condizione, nei Paesi ricchi, che chi perde il lavoro migrato in quelli poveri ne trovi subito un altro. Qui il problema: si nota un crescente scarto temporale tra quando un Paese ricco comincia a perdere lavoro e quando trae vantaggio dall’estensione del mercato. Per esempio, nella ricerca esasperata di efficienza durante la stagnazione 2001-2002 le aziende americane hanno delocalizzato in India, ed altre aree anglofone,  non più la sola manifattura di calzature e simili, ma anche i call center e la creazione di software per servizi avanzati  forniti nel mercato americano via connessioni telefoniche ed Internet a basso costo. E ciò ha prodotto una inaspettata perdita di lavoro negli Usa in settori a medio-alta qualità che non è stata sostituita da nuovi od altri a buon salario. L’ansia della classe media è salita a picco e, per esempio, la California ha varato, alla fine di agosto, un legge che vieta l’esportazione di lavoro fuori dall’America per le imprese con contratti pubblici. In Europa la delocalizzazione delle imprese, e la crisi competitiva di quelle grandi, sta creando disoccupazione permanente e ciò fa aumentare la pressione sui governi per trovare soluzioni. Ma quali sono possibili? Un po’ di protezionismo sarà inevitabile per rallentare l’erosione del lavoro. Fa paura dirlo, ma in realtà la globalizzazione non ne risentirà se sarà poco e selettivo. Il caso peggiore, invece, potrebbe realizzarsi se non si troverà un modo di creare nuovo lavoro che sostituisca quello perso e che sia meno vulnerabile alla concorrenza per costo. E c’è una sola via per farlo: detassare per incentivare nuovi investimenti ed usare denari pubblici per ricaricare i lavoratori di nuova competenza, e le imprese di più tecnologia, invece che per sprechi assistenziali. Almeno lo si sappia.  

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