Probabilmente i lettori sono incuriositi dalla crescente enfasi, da parte del ministero dell’Economia, sulla vendita e gestione più remunerativa di parte del patrimonio statale sia per ridurre il debito pubblico sia per aumentare gli introiti nei bilanci annuali. In particolare, molti vorrebbero capire meglio se è possibile realizzare quanto promesso dal Documento di programmazione economica e finanziaria (Dpef) per il 2005: abbattere di 100 miliardi di euro, 25 ogni anno nei prossimi quattro, il debito pubblico attraverso la dismissione di parte del patrimonio. E’ fattibile?
Non mettetevi a ridere, ma solo da pochi mesi possiamo cominciare ad avere un’immagine precisa del valore patrimoniale pubblico. I governi precedenti non hanno mai tentato seriamente di censire in dettaglio il patrimonio, nonostante i molti appelli a farlo e tanti studi in materia (famosi quelli del Prof. Sabino Cassese) che si sono succeduti nei decenni scorsi. E non lo hanno fatto, si ipotizza, per due motivi: il sistema finanziario non era ancora abbastanza evoluto per grandi operazioni sul patrimonio; prevaleva un’ideologia per cui il bene statale veniva considerato inalienabile e non soggetto a logiche di mercato. In verità, parecchi analisti sospettano che la disattenzione sui beni pubblici fu dovuta all’alta corruzione nel recente passato: l’amico del politico prende in affitto a costo irrisorio un appartamento posseduto da un dato ente pubblico e quindi vi è un interesse a non censire tale tipo di beni ed a lasciarne opachi i valori. Ma le prime due cause sembrano quelle principali. Ed ora sono rimosse: la tecnica finanziaria e la scala del mercato permettono grandi rielaborazioni dei patrimoni statali; il governo in carica segue una dottrina che differenzia il bene pubblico inalienabile per interesse collettivo da quello che si può vendere o meglio gestire senza violare tale interesse stesso. La combinazione di questi due sviluppi, sotto la pressione a ridurre la drammatica posizione debitoria dell’Italia, ha portato nei due anni passati a dettagliare i valori disponibili. Se ne è occupato proprio Domenico Siniscalco nella sua veste di Direttore generale del Tesoro prima di succedere a Tremonti. Il numero? Un calcolo ancora parziale – secondo gli standard contabili dell’Unione europea - determina in 1.738 miliardi di euro l’attivo patrimoniale pubblico dello Stato, equivalente al 137% del Pil, cioè della ricchezza nazionale prodotta in un anno. Mentre il debito pubblico corrisponde attualmente al 106% del Pil stesso. Ciò vuol dire che il patrimonio nazionale è di molto superiore al debito. Tale precisazione è molto significativa perché segnala che l’Italia è patrimonialmente solida. Ma la sostenibilità di un debito viene valutata – per definire il prezzo dei titoli - in relazione a quanto lo si riesce a ridurre nel tempo. Quindi l’Italia, censito il patrimonio, deve anche comunicare quanto ne riuscirà a realizzare per abbattere il debito stesso. Azione, tra l’altro, determinata dalle regole europee: le vendite di beni patrimoniali vanno messe al servizio della riduzione del debito e non del deficit annuo. Numeri: sono credibili 25 miliardi all’anno nei prossimi quattro? Certamente, sul piano tecnico, sì: il valore di beni immobili, infrastrutture, concessioni, brevetti e altri beni immateriali, nonché azioni di aziende, facilmente vendibili si aggira attorno ai 300 miliardi. Un mix di tali beni, a pacchetto, può essere messo sul mercato senza distorcerlo per eccesso di offerta, appunto 25 miliardi all’anno. E basterà per portare nel prossimo quinquennio il debito sotto il 100% del Pil, obiettivo impostoci dalla Ue per stare dentro i parametri di equilibrio finanziario. Tecnicamente, è fattibile.