Nei centri di ricerca si sta cercando di capire cosa potrebbe cambiare nello scenario globale in caso di vittoria di Bush o Kerry nelle elezioni presidenziali del prossimo novembre. Perché i dati mostrano che i due candidati hanno una pressoché eguale probabilità di farcela e quindi bisogna prepararsi, concettualmente, ad ambedue le eventualità. E c’è la sensazione che la vittoria dell’uno o dell’altro potrebbe portare a due diverse politiche economiche e di sicurezza con conseguente modifica degli assetti globali vista la centralità degli Usa nel pianeta. Questo è il punto principale che connette quanto succede negli Usa ai nostri interessi.
L’analisi storica mostra che negli ultimi decenni la politica estera statunitense non è mai cambiata sostanzialmente al variare del colore politico delle presidenze. Ciò è dipeso da un’analisi comune tra repubblicani e democratici ai tempi della 2° Guerra mondiale: l’America avrebbe dovuto esercitare un’influenza planetaria per prevenire ulteriori conflitti. Si convinsero che “ se non governiamo il mondo poi dobbiamo pagare un costo dieci volte maggiore per ripararne il disordine”. Così – nel 1944 - nacque l’interventismo statunitense ed il conseguente ordine mondiale centrato sull’America e sull’idea di evitare guerre future sia portando sviluppo e democrazia a tutti sia intervenendo militarmente contro potenze aggressive prima che diventassero pericolose. Entro questo concetto comune, poi democratici e repubblicani si divisero su due diversi modi per applicarlo. I primi, tipicamente, invocano un maggiore ricorso all’unilateralismo, i secondi al multilateralismo. Fino a che durò la Guerra fredda tale differenza nel modo non cambiò sostanzialmente le politiche reali perché la posizione americana richiedeva scelte obbligate, irrilevante che il presidente fosse democratico o repubblicano. Ma dopo il 1989 le situazioni si sono fatte più fluide e sono aumentate le opzioni, oltre alla complessità, di scelta. Per tale motivo parecchi analisti ritengono che, diversamente dalla tradizione, l’elezione di Kerry o Bush darà al mondo un indirizzo diverso.
Una bozza di scenario è la seguente. Bush manterrà alta la pressione militare di polizia internazionale, continuerà la politica del dollaro debole e terrà, pur tra alti e bassi, l’economia statunitense in crescita forte. Kerry terrà l’impegno ordinativo globale, ma nell’ambito di un maggiore multilateralismo, sacrificherà un po’ la crescita per riequilibrare i conti pubblici. In sintesi, Bush prenderà più rischi sul lato militare e dell’inflazione, Kerry su quelli della deflazione e dell’inefficacia militare in cambio della ricomposizione diplomatica con gli alleati. Pur applicate in modo solo relativo – Kerry non rischierà mai una crisi economica vera e propria e Bush eviterà sempre la rottura con gli europei e con la Russia – tali eventuali diverse politiche faranno una grande differenza per noi: dollaro debole o forte, rilevante per l’export; impegno militare italiano entro un’alleanza occidentale compatta oppure divisa, come successo da due anni; forte pressione dissuasiva contro la proliferazione nucleare (Bush) o meno (Kerry), cioè contro Iran e Corea del Nord, ecc. Possiamo calcolare i vantaggi e gli svantaggi per noi? La sensazione è che il mondo di Kerry comporti dei vantaggi all’Italia ed all’Europa nel breve periodo, perché eliminerebbe squilibri e tensioni creati da Bush, ma gravi svantaggi nel lungo. Per esempio, un dollaro più forte ci aiuterebbe subito, ma una stagnazione economica americana in prospettiva metterebbe in ginocchio noi e l’eurozona bisognosa di compensare con l’export la poca crescita interna.