La nascita di un nuovo governo che appare audace e pragmatico stimola riflessioni sul raggiungimento dell’indipendenza energetica dell’Italia, a basso costo, e sull’effetto modernizzante sistemico di tale strategia.
Ora la priorità è gestire l’emergenza. Vista la dipendenza italiana dal gas importato la soluzione nel biennio 2023-24 è necessariamente quella di trovare alternative abbondanti alle forniture russe aumentando le importazioni via tubo e i rigassificatori per ricevere gas liquido. Ma chi scrive trova nei dati prospettici due problemi: a) trasferire la dipendenza dalla Russia ad altre nazioni non tutte affidabili non è certo indipendenza e riduzione della vulnerabilità; b) il costo del gas liquido che l’Italia importerà da Angola, Congo Brazzaville, Mozambico, Qatar e probabilmente Egitto, sarà difficilmente comprimibile sia per la complessità dei passaggi tecnici (liquefazione, trasporto via mare e rigassificazione) sia per la concorrenza globale che permette ad un produttore di venderlo altrove se l’acquirente italiano o europeo chiede sconti. Poi c’è un problema di sicurezza, per esempio il presidio delle rotte che implica una proiezione di potenza marittima dell’Italia che comporta scambi con gli alleati che potrebbero essere un vantaggio geopolitico, ma anche una debolezza da necessità che si tradurrebbe in costo aggiuntivo o ingaggi non convenienti. In materia di dipendenza dal gas via tubo, i costi dell’aumento di importazioni da Algeria ed Azerbaijan contrattualizzati dal governo italiano non sono noti, ma si può ipotizzare che non saranno bassissimi. Inoltre, al netto dell’incertezza sulle forniture libiche, il gas da Baku sul Caspio è a tiro della flotta russa in quel mare e l’Algeria, pur interessata alla convergenza con l’Ue, non può dirsi incernierata nel perimetro Nato. Pertanto su queste forniture c’è un rischio latente di sicurezza e di costi indiretti e diretti. L’impatto di quanto detto sulla contrattistica di forniture esterne dell’Italia mostra due possibili riferimenti: 1) si devono fare contratti lunghi per convincere un produttore ad investire e restare ingaggiato con l’Italia; 2) ma il prima possibile le forniture di gas per queste vie dovranno essere ridotte per evitare costi elevati e decompetitivi. C’è un punto di equilibrio tra i due termini? Dipende dalla velocità con cui l’Italia sarà in grado di ridurre il fabbisogno di metano importato. Una prima stima porta a valutare contratti di 6 anni più altri 3 sottoponibili a revisione parziale, seguita al decimo anno da una complessiva. La speranza strategica è che in un decennio l’Italia riduca progressivamente ad un minimo il gas importato.
Possibile? Se si comincia a costruire subito l’alternativa è probabile si riesca nel 2033. Come? Per prima cosa aumentando entro un triennio la produzione nazionale, modificando il Pitesai, il cui potenziale è molto elevato, mantenendo intatte le infrastrutture gasifere nazionali (corroborabili con l’aggiunta di idrogeno come già sperimentato) almeno per 15 anni. Il petrolio? Prossima puntata, servono più dati per lo scenario. Ma ce ne sono a sufficienza per sollecitare un programma di inserimento su ogni tetto di pannelli solari: la Svizzera lo sta impostando. Tale opzione applicata in Italia produrrebbe un’enorme massa di elettricità diffusa, pur ingigantendo il problema di stoccaggio/distribuzione dell’elettricità stessa, ma dando motivo per risolverlo. Inoltre andrebbe avviata la produzione massiva di idrogeno verde (oggetto di investimenti Pnrr) da biogas prodotto in digestori (fermentazione) alimentati da rifiuti agricoli e anche organici. Per inciso, chi scrive ha avuto accesso ad un reattore per la produzione di idrogeno verde, già industrializzabile, che aumenta l’efficienza del processo (ricombinando le membrane che filtrano dal biogas l’idrogeno) dal 40% al 70%. Considerando la gran massa di digestori in Italia basta fare 2 + 2 e cambiare lo status di un rifiuto classificandolo come fonte di energia. Si aggiunga un po’ più, ma “sgarbianamente” non troppo, di eolico, di biogas anche per autotrazione, di carburanti sintetici innovativi (revisionando i limiti Ue ai motori termici). Si aggiungano estensioni dell’idrico su corsi d’acqua normali e flussi da invasi di riserva e futuri dissalatori dotati di spirali per produrre moto poi elettrizzabile. Ecc. In un decennio si potrebbe ridurre il gas importato in progressione geometrica. E il nucleare? Entro un decennio sarebbe certamente possibile installare centrali a fissione supersicure e “mini” per raggiungere quell’abbondanza di energia che assicura costi bassi e competitivi nonché il vantaggio geopolitico di poter esportare energia stessa. Ma su questo punto chi scrive vede un problema di consenso: bisogna costruire siti isolati che non portino dissensi. Per geoesercizio, chi scrive ne ha trovati 5 nel territorio nazionale ed 1 per le scorie. Ce ne potrebbero essere di più se la politica energetica fosse combinata con quella di ridisegno del territorio per scopi di ecoadattamento, per esempio nuovi argini che anche isolano un’ampia zona non abitata dove collocare un reattore. Qui il punto: un approccio sistemico per integrare produzione di energia da fonti multiple, infrastrutture, sistemi agricoli, miniere naturali e urbane, economia circolare, ecc. Cominciando ora a predisporre un piano, entro la legislatura se ne potrebbero applicare alcune parti, mostrando come raggiungere l’indipendenza energetica combinata con la sostenibilità, accelerandola: ecofuturizzazione.