Da tempo chi scrive ha proposto su queste pagine di mettere in priorità l’ecoadattamento, cioè una politica finalizzata a rendere indipendenti gli habitat ed attività antropici dalle variazioni ambientali. Nelle ultime settimane è aumentato il numero di mail da lettori che chiedono chiarimenti ed esempi. Qui alcune risposte.
Chi scrive iniziò ad inserire come input gli scenari delle scienze fisiche in quelli (geo)economici nel 1988-90 quando si trovò unico rappresentante delle scienze sociali nel gruppo di fisici (della terra, dell’atmosfera, del clima, ecc.) con la missione di preparare per il Segretario generale dell’Onu un piano globale per la riduzione delle catastrofi ambientali (Un-Idndr). L’enfasi era su alluvioni, desertificazione e terremoti perchè i due Stati sponsor e pagatori, Giappone e Marocco, erano più interessati a questi rischi, ma le attenzioni del gruppo di lavoro erano più attratte dal mutamento climatico, anche se tale tema fu lateralizzato nel rapporto finale per motivi di sensibilità politica. Chi scrive tentò di inserire negli scenari economici la previsione di un aumento dei livelli del mare che avrebbe reso inabitabili, in prospettiva secolare, i territori costieri e fluviali dove abitano i 2/3 della popolazione mondiale, un’estensione della desertificazione in alcune aree, la tropicalizzazione di altre temperate, un probabile ciclo anomalo delle precipitazioni, tra cui le bombe d’acqua, in relazione a quelle correnti. In sintesi: già era visibile un mutamento sostanziale del substrato naturale per la sopravvivenza e viabilità dei sistemi umani. Quando chi scrive chiese agli altri ricercatori se gli impatti fossero mitigabili, ebbe come risposta che una parte di quel mondo scientifico pensava che l’eliminazione dei gas serra avrebbe potuto dare un contributo mentre un’altra parte enfatizzò che si trattava di un ciclo naturale del pianeta, in continuità con l’alternarsi di periodi caldi e freddi da milioni di anni, non arrestabile. Chi scrive osservò in quei tempi i primi segni di un movimento composto da scienziati con propensione politica che puntava ad enfatizzare la de-carbonizzazione come strumento efficace per mitigare il riscaldamento planetario. Approfondì con questi le ragioni ed ebbe la sensazione, puramente soggettiva, che questi scienziati volessero dare alla gente l’idea che c’era qualcosa di fattibile che evitasse disastri, una sorta di mito rassicurante con venature di anticapitalismo. Ma da allora, in nome del realismo, attivò un programma di ricerca, presso la University of Georgia (Atlanta), denominato “ecoadattamento/ecologia artificiale” con lo scopo di creare soluzioni che permettessero, appunto, le attività umane di fronte a qualsia variazione ambientale. Tale concetto fu demonizzato nel campus, prevalenti gli ecoconservatori “naturalistici”, e rimase di estrema minoranza, ma negli ultimi anni è diventato sempre più attuale di fronte all’evidenza degli impatti che non possono essere mitigati dalla sola decarbonizzaizone (e solo nell’Ue), qualora questa fosse uno strumento realistico e non solo un mito ideologico-rassicurante per le menti semplici. Per inciso, resta la domanda di 32 anni fa: quanta parte del riscaldamento deriva dal movimento planetario e quanta dall’antropizzazione? Quello che è certo è che non si può aspettare fine secolo per prevenire via ecoadattamento catastrofi ambientali già in atto.
Esempi. E’ nelle cronache una siccità devastante per l’agricoltura. Non è ancora chiaro se si tratti di una desertificazione con scarsità idrica duratura o tropicalizzazione con periodi lunghi di siccità e piovosità. In attesa di chiarirlo, comunque, serve una rete idrica per l’agricoltura millimetrica alimentata da bacini artificiali per riserva d’acqua, ma anche da dissalatori. In generale, la nuova azienda agricola ecoadattata avrebbe come substrato un reticolo di condotte idriche, coperture contro grandine, gelate e caldo estremo, un sistema autonomo (per singola unità o consortile) di produzione di energia da biogas (anche per generare idrogeno verde), solare, ecc., utile per alimentare habitat microclimatizzati per allevamento, ecc. In tal senso l’ecoadattamento, spinto dalla crisi, creerebbe un nuovo tipo di azienda agricola. Costi? Compensabili con il rapido aumento delle produzioni e loro messa in sicurezza.
Microclimi. L’ecoadattamento richiede la graduale microclimatizzazionen degli habitat umani, sia le abitazioni, sia i luoghi di convergenza collettiva, contro caldo e freddo estremi. Nei decenni è fattibile, ma l’energia richiesta è quella erogabile da centrali nucleari a fissione (mini) e a fusione (mega). Tempi di transizione? Nell’ambiente europeo dai 40 ai 60 anni, con il vantaggio di offrire al resto del mondo tecnologia già sperimentata e quindi competitiva.
Terraformazione. Il livello del mare aumenterà. Nell’ultimo ciclo caldo del pianeta è arrivato a 7 metri sopra quello attuale, mentre in una glaciazione è sceso fin a quasi 100 metri sotto. Quando l’idroscenario avrà dati più chiari per le proiezioni sarà necessario proteggere con dighe i sistemi umani residenti per evitarne l’abbandono o la perdita (catastrofica) di valore. L’orizzonte è remoto, ma i lavori necessari sono di una complessità mai sperimentata. Pertanto esperimenti sulle tecnologie di terraformazione ecoadattiva vanno avviati già nel prossimo futuro nei luoghi più vulnerabili (atolli nel Pacifico, Indonesia, Miami, Venezia, ecc.).
C’è tanto altro, verrà trattato periodicamente, ma al momento ciò sia sufficiente per inserire l’ecoadattamento nelle soluzioni da attivare con priorità.