La cerimonia – a Dublino - che ha formalizzato l’allargamento dell’Unione europea è stata di grande forza simbolica: i giovani hanno portato le bandiere dei 25 europaesi ai rispettivi capi di governo per ricordare loro che la costruzione di un futuro sempre migliore è la finalità sostanziale dell’agire politico. Ma per rendere fattibile l’integrazione di un’Europa così diversificata non bastano i simboli e le buone intenzioni. Ora il modello continentale non solo è incompleto, ma presenta dei nodi che dividono le nazioni in fronti contrapposti, non tanto sul piano dell’ideologia, ma su quello degli interessi concreti. Che sarà difficilissimo sciogliere. E che certamente l’europeismo generico ed emotivo non scioglierà. Ci potrà riuscire solo un “europeismo tecnico” che anche i lettori dovrebbero cominciare a condividere.
Il nodo che ora appare più intrattabile riguarda i sistemi fiscali: le nazioni europee resteranno libere di decidere sovranamente la quantità di tasse oppure dovranno rispettare le stesse aliquote? Cioè: può il mercato europeo tollerare una concorrenza fiscale tra nazioni oppure no? Dove tale concorrenza implica una gara al ribasso delle tasse per rendere più competitive le singole economie. Tale punto è stato sollevato dal cancelliere socialdemocratico tedesco Schroeder, la scorsa settimana, proprio in occasione dell’entrata dei nuovi 10 Paesi nell’Unione. In questi le tasse ed il costo del lavoro sono minori che non in Germania, Francia ed Italia. Quindi c’è il timore che entro la medesima – in prospettiva - area monetaria vengano penalizzati i Paesi a costi maggiori e che fanno fatica a ridurli. Due soluzioni: tutti riducono le tasse o le si alzano dove sono troppo basse. La seconda soluzione salverebbe il modello di welfare come concepito dalla sinistra, ma soffocherebbe l’economia continentale e pregiudicherebbe lo sviluppo dei nuovi europei. Con il rischio di una loro ribellione ad un’Europa che li rende poveri. La prima porterebbe più efficienza, lavoro e crescita a tutti, ma, appunto, metterebbe in crisi i paesi principali dell’Unione dove le riforme sono lente ed osteggiate. C’è una soluzione? Quella tecnica migliore ammette la concorrenza fiscale come strumento per ridurre le tasse e così vitalizzare l’intero mercato europeo. Inoltre, se si vuole che i nuovi 10 Paesi raggiungano gli standard europei di ricchezza – che ora raggiungono solo al 50% circa - bisogna dare loro il modo per farlo via attrazione di investimenti grazie ai minori costi sistemici. Ma tale buon modello tecnico può diventare un incubo per Paesi come Germania, Francia ed altri, per esempio la Svezia, a costi altissimi. Mentre il Regno Unito opera già con minimi livelli fiscali e l’Italia si appresta a a muoversi in tale direzione. Si potranno bilanciare i diversi interessi? Certamente, ma solo definendo per tutti un minimo sotto il quale non si può scendere, per esempio 20% di carico fiscale sulle imprese e 25 per le famiglie, e non un massimo (50%, per dire) che tutti dovrebbero adottare, come vorrebbe Schroeder. In sintesi, l’integrazione fiscale europea, pilastro necessario per la costruzione di un mercato unico, può avvenire solo al ribasso. Un problema politico enorme. E verrà complicato, secondo nodo, dalla pressione per far entrare nell’euro i nuovi Paesi. Così perderanno la sovranità monetaria e la possibilità di aumentare la loro competitività ribassando la moneta. Cosa che li porterà a cercarla ancor di più con la concorrenza sui costi sistemici. Tale doppio bilanciamento fiscale e monetario della diversità intraeuropea diventerà la questione principale dell’Unione, il punto principale che la spaccherà o consoliderà.