Sta riemergendo in Italia una voglia crescente di reagire al declino industriale. Ne è sintomo, per esempio, il tema di un prossimo convegno di Confindustria: contro la cultura del declino. Era ora: l’Italia è in fase di deindustrializzazione ed in crisi competitiva da decenni, ma è ancora tanto economicamente vitale da poter puntare ad una ri-industrializzazione ambiziosa in tempi ragionevoli. La ricostruzione dell’ottimismo, tuttavia, ha bisogno di essere riempita da un lucido realismo che indichi cosa non funzioni e vada cambiato nel modello del capitalismo italiano. Tento qui un promemoria semplificato dei punti essenziali.
Una parte della necessaria revisione del modello riguarda la riduzione dei pesi politici che soffocano l’attività economica. Questo aspetto è noto e si traduce nella sintesi: meno tasse, il prima possibile, più flessibilità nel mercato del lavoro e meno costi di origine burocratica. Così come è noto il problema prioritario da risolvere per rendere possibile la riduzione dei carichi fiscali: abbassare i costi per inefficienza dello Stato e dei servizi statali e rendere sostenibili gli impegni della spesa pubblica. Tale materia vede uno scontro sociale in atto tra chi non vuole le riforme di efficienza e chi le ritiene irrimandabili. Ed il sistema è bloccato. Per sbloccarlo c’è un solo modo: prendere il coraggio a due mani e far valere una maggioranza parlamentare che ha preso un impegno riformatore. Giustificato, indipendentemente dalle credenze di sinistra o di destra da un fatto realistico: se il modello politico non cambia nella direzione detta non sarà possibile la ri-industrializzazione competitiva del Paese. E’ un dato tecnico, senza tema di smentite.
Ma questo è uno dei tanti problemi di modello e non l’unico. Il secondo, tra quelli più importanti riguarda, la capitalizzazione delle imprese. L’Italia è un sistema “bancocentrico”. Vuol dire che prevale il capitale fornito all’imprenditore senza voler – e poter - partecipare al rischio di impresa. Per far crescere nuove imprese e rendere più grandi le piccole ci vuole uno strumento attraverso il quale il capitale possa rischiare con l’imprenditore: sono i fondi di investimento, pochi e sottodimensionati da noi. La soluzione è quella di modificare tutte quelle leggi, regolamenti e situazioni che ne impediscono lo sviluppo. Si può fare con relativa facilità, il dibattito dovrebbe concentrarsi sul come. Qui, solo una pennellata, va sottolineato che la rinascita della grande impresa in Italia dipende principalmente da tale riforma delle fonti di capitale: più risorse di rischio più imprese e più grandi.
Dipende anche dalla disponibilità di tecnologia e dal costo per ottenerla. La legislazione si è finalmente orientata verso la facilitazione dell’integrazione tra università ed imprese. Ma questa svolta deve essere ancora riempita da un adeguamento culturale sia dei ricercatori sia degli imprenditori. Chi ha dubbi pensi a come è nata, per esempio, Microsoft: una buona idea presa in una ottima università e sviluppata in un garage è poi diventata la più grande azienda del pianeta. Basta mettere su carta le condizioni di sistema che hanno favorito questa e tante altre avventure simili e compararle con le nostre. La buona notizia è che potremmo ottenerle anche noi. La brutta è che ce ne una sola – ottimo capitale umano – le altre ancora non realizzate: sul piano universitario, su quello del capitale che finanzia le invenzioni, ecc.
Lo spazio è finito, ma l’idea è chiara: il nuovo modello del capitalismo italiano dovrà emergere da una modifica sia stimolativa sia correttiva delle regole economiche, del ciclo del capitale e della tecnologia. Se il primo punto è ostacolato dal dissenso, almeno cominciamo dagli altri due che richiedono solo più modernità. Si può fare, primavera.