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Carlo Pelanda: 2022-4-30Verità and Affari

2022-4-30

30/4/2022

L’alleanza tra democrazie richiede una base economica

Lancia e scudo. La prima è proiettata dalla mano statunitense in forma di guerra economica contro Russia e Cina con pressione sugli alleati nell’Atlantico e nel Pacifico per sostenerla. Ma il secondo richiede una convergenza economica tra alleati per mitigare i contraccolpi. L’America ha una postura contributiva, ma è riluttante a concedere agli alleati stessi più accesso al mercato interno statunitense. Nel consenso interno in America, infatti, si è consolidata l’idea, sia a destra sia a sinistra, della necessità di un forte protezionismo per tutelare la ricchezza della classe media dopo che a seguito di eccessi della concorrenza esterna, per decenni, questa ha subito un impoverimento impressionante. Da un lato, il deficit commerciale americano è sempre stato bilanciato da un ritorno in dollari nel sistema finanziario statunitense. Dall’altro, questa formula di bilanciamento solo finanziario non ha difeso i posti di lavoro nell’economia reale o, meglio, i redditi. Questa è stata la concausa del successo elettorale dell’offerta americanista/protezionista di Donald Trump nel 2016, e della sua performance competitiva nel 2020, nonché dell’enfasi protezionista della sinistra e della convergenza di ambedue sulla limitazione dell’export cinese, e non solo, nonché su una postura di “reshoring”, cioè di riportare “a casa” la maggior quantità di produzioni manifatturiere precedentemente delocalizzate. Pertanto il dare disponibilità ad accordi di libero scambio “zero dazi” è molto difficile per un politico statunitense, particolarmente in vista delle cruciali elezioni di mid term, dove saranno rinnovati i 2/3 del Congresso, nel novembre 2022.

Ma gli strateghi statunitensi si rendono conto che senza questa concessione economica l’alleanza politica sia sul lato del Pacifico sia su quello dell’Atlantico non potrà diventare solida. Inoltre, osservano che la Cina usa proprio questo gap statunitense per rinforzare la sua strategia di influenza verso gli alleati dell’America, dicendo: “gli americani offrono solo armi, noi business”. Esponenti tedeschi hanno chiesto a gran voce in tempi ravvicinati un trattato economico sistemico tra Ue e Stati Uniti. La prima volta, con entusiasmo, lo ha fatto Manfred Weber, capogruppo del Ppe al Parlamento europeo, appena eletto Joe Biden a fine 2020, ma è stato subito silenziato. La seconda, poche settimane fa e con spirito d’urgenza, lo ha fatto Christian Lindner, ministro delle Finanze. La logica è evidente: la Germania/Ue è forzata a convergere con l’America, ma ciò le costa il mercato russo (25-30 miliardi di export) e in prospettiva quello cinese, da cui ora è dipendente, e quindi ha bisogno di compensare queste perdite attuali e probabili con un accesso privilegiato al mercato statunitense. Per inciso, tale logica rappresenta anche gli interessi reali italiani, ma non quelli francesi meno dipendenti dall’export e più eurosovranisti. Probabilmente il tema è stato silenziato nell’Ue su pressione statunitense, a parte il problema delle prossime elezioni parlamentari in Francia, perché l’Ue stessa ha ricevuto rassicurazioni riservate da parte americana che qualcosa si farà, ma a fine anno, chiedendo il silenzio fino ad allora.

Per tale motivo i think tank europei stanno osservando come l’America stia trattando il medesimo tema con gli alleati dell’Indo-Pacifico. L’Amministrazione Biden ha proposto una piattaforma di accordi economici – Ifep, Indo/Pacific Economic Framework – a otto nazioni dell’area: Giappone, Australia, N. Zelanda, India, Singapore, Vietnam, Malesia e Indonesia. La mossa serve a dare base economica all’alleanza militare Aukus (Australia, Regno Unito, America) allargandola in funzione anticinese. Da un lato, queste nazioni mostrano disponibilità. Dall’altro, insistono per più accesso al mercato statunitense, cosa che l’America, al momento, non può dare nella scala richiesta. Si osserva un notevole sforzo inventivo da parte statunitense per soddisfare gli alleati senza effetti negativi sul consenso interno, anche per rassicurarli che un eventuale cambio di amministrazione o maggioranza poi impedisca la ratifica degli accordi. Tale piattaforma è in evoluzione, aggiornamenti.

Per l’Ue potrebbe essere meno difficile impostare un accordo con l’America perché bilaterale. Ma l’Ue dovrebbe cambiare i suoi protocolli macchinosi per i trattati esterni e variarli per renderli evolutivi in quanto sarà più fattibile un accordo graduale (dove è più semplice misurare la simmetria tra dare ed avere) passo dopo passo, con metodo funzionalista/pragmatico.

Chi scrive, da anni, invoca un mercato delle democrazie e delle nazioni compatibili non solo per costruire un blocco politico ed economico più grande di quello dei regimi autoritari, ma anche per rafforzare ogni singola democrazia via aiuto delle altre e incentivare nazioni non democratiche a democratizzarsi. Ideologia? No, macrofinanza: se il mercato vede la prospettiva di una architettura politica grande, solida, sicura e stabile avrà più fiducia e quindi estrarrà più ricchezza dal futuro per usarla nel presente, cioè investimenti. Ma l’architettura dovrebbe includere gli alleati del Pacifico e dell’Atlantico in un unico mercato ad integrazione crescente, sotto l’ombrello di sicurezza comune di una Nato globale, come recentemente proposto da Londra. Con tale scudo servirebbe, grazie alla dissuasione, meno la lancia. Approfondimenti nel libro dello scrivente: “La riparazione del capitalismo democratico” (Rubbettino, estate 2021).     

(c) 2022 Carlo Pelanda
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