La Bce ha confermato, anticipandola, la chiusura dei programmi straordinari di acquisto dei debiti nazionali sia contro gli effetti economici della pandemia (Pepp) sia contro la passata tendenza di deflazione nell’Eurozona (per esempio, App), prendendo una postura restrittiva non bilanciata a sufficienza dal segnale che il rialzo dei tassi sarà tardivo e ribadendo quella di “opzionalità”, cioè che la Bce stessa è preparata ad adattare la politica monetaria alle contingenze con una varietà di strumenti. Tale impostazione di politica monetaria contiene un grave errore perché chiude una linea di finanziamento agli Stati senza aprirne immediatamente un’altra in una situazione dove il sistema economico ha bisogno di compensazioni, oggi e non domani, che attutiscano gli impatti inflazionistici e quelli derivati da sanzioni e controsanzioni.
Quale sarebbe stata la giusta decisione di politica monetaria? Chiudere i programmi precedenti di sostegno agli indebitamenti degli Stati per permettere loro di finanziare la stabilità economica nell’Eurozona non è di per sé un errore. Lo è, appunto, il non aver subito annunciato la creazione di una nuova infrastruttura dedicata al “debito di guerra” e la disponibilità a sterilizzare entro il bilancio della Bce l’eventuale extradebito “di forza maggiore”, permettendo la diluizione del suo impatto in decenni. Questa sarebbe stata la missione di un prestatore di ultima istanza serio e professionale, in particolare della Bce che, gestendo una moneta unica senza uno Stato con un bilancio altrettanto unico, deve mettere in priorità l’allineamento del costo di rifinanziamento dei debiti nazionali, cioè evitare spread elevati. Tale requisito di missione non è stato rispettato e lo spread italiano è schizzato in alto in relazione a nazioni con minore debito pubblico, differenziando le nazioni stesse mentre la situazione geopolitica richiede la loro compattezza. Questo errore economico e politico potrà essere riparato, ma chi scrive teme che non lo sarà a sufficienza senza pressioni.
Chi scrive stenta a credere che la Bce non abbia tecnici capaci di progettare l’indirizzo qui abbozzato, ma deve annotare la divisione tra rappresentanti nazionali, l’ennesima gestione comunicativa non adeguata del presidente Christine Lagarde e il ritardo metodologico della cultura di scenaristica della Bce nell’includere l’analisi geopolitica. Per esempio, fino a poche settimane fa il capo economista della Bce rilasciava interviste a raffica per convincere il mercato che l’inflazione sarebbe stata minore di quello che si è rivelata, non valutando a sufficienza il suo inasprimento per motivi di conflitto mentre i think tank (privati) più istruiti - nonché l’intelligence statunitense e britannica - stavano alzando la probabilità di un caso peggiore e, indirettamente, della necessità di predisporre una reazione monetaria/fiscale rapida. Ma ciò che veramente appare sub-ottimale nella conduzione Bce è il conflitto tra falchi e colombe non per motivi tecnici, ma per riferimenti nazionali. Spaventati dall’idea che gli elettorati insorgessero contro una Bce incapace di frenare l’inflazione, i rappresentanti di alcuni Stati nella Bce hanno voluto fare qualcosa che desse l’impressione di un’azione ordinativa, mettendo in priorità la chiusura degli acquisti dei debiti senza pensare troppo alla fiducia sistemica. Qui si nota lo zampino del “criterio tedesco”: stabilità uguale a fiducia mentre, in realtà, per difendere la seconda quando è a rischio bisogna rinunciare ad un po’ della prima, cioè indebitarsi. Da un lato, tenere un’impostazione contro la deflazione mentre l’inflazione viaggia oltre il 5% non è possibile sul piano del consenso e anche su quello tecnico (l’eccesso di liquidità è in effetti un fattore di inflazione, anche se non il principale nelle contingenze). Poi bisogna considerare che la fuga verso la qualità da parte del mercato ha penalizzato l’euro a favore del dollaro e del franco svizzero e ciò pone il problema di un cambio devalorizzato che favorisce l’inflazione importata (non risolto però dalla mossa dei falchi). D’altro lato, un’inversione di posizione da espansiva a restrittiva richiederebbe una calibratura che non c’è stata. Inoltre la situazione rende necessaria un’immediata rassicurazione al mercato europeo e globale che la “Bce c’è”, appunto annunciando il lancio di un’infrastruttura di debito di guerra anche senza doverla precisare subito. Ma all’interno della Bce non c’è consenso e per tale motivo si è degradata la funzione di garante di ultima istanza. Fortunatamente il mercato non ha scontato con violenza questo errore perché sta pesando di più i venti di guerra. Ma lo farà se la Bce non ritrova convergenza sulla missione di essere pilastro della fiducia. La sensazione è che voglia attendere maggio per farlo, aspettando più chiarezza nelle situazioni. Ma il tempo giusto sarebbe adesso: basterebbe l’annuncio che ogni Stato potrà avere i soldi per le compensazioni necessarie agli attori di mercato e famiglie. Il non averlo fatto costringe i governi a mantenere elevata l’ansia nell’economia, dandole una tendenza recessiva. Appunto, serve una linea di condotta armonica tra Ue, Bce e Stati. Da un lato, è inevitabile e qualcosa verrà fatto. Dall’altro, il tempo è la variabile centrale: la reattività della Bce e quella dell’Ue sono troppo lente, esponendo i governi nazionali al rischio di una coperta troppo corta in relazione al fabbisogno. La stampa aumenti la pressione puntando alla responsabilità della Bce come garante di ultima istanza sistemico perché non sta svolgendo adeguatamente tale missione.