L’Italia galleggia su una bolla di gas, e probabilmente di petrolio, ma lo sfruttamento è stato ridotto negli ultimi 20 anni e bloccato negli ultimi 3 in attesa del “Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee” (PiTESAI). Ora il ministro della Transizione ecologica lo ha finalmente pubblicato, ma è un chiaroscuro che dovrà essere adattato ai nuovi tempi di inflazione energetica basata su fenomeni – ricatto russo, posizione monetizzante dell’Opec +, non stabilità delle fonti alternative idro, eolico e solare, ecc. - che tendono a renderla duratura.
Parte chiara. Le imprese estrattive hanno bisogno di un quadro normativo certo per riprendere lo sfruttamento ed aprire nuove esplorazioni: Il PiTESAI appare permetterlo, facendo sperare in una produzione autonoma di gas che copra almeno il 7-8% del fabbisogno nazionale dall’attuale 3% circa entro un anno e mezzo. Parte scura: ma le aree idonee appaiono solo una piccola percentuale del potenziale, in particolare nei fondali marini, e ciò limita la prospettiva di un incremento della – pur parziale, ma calmierante e densa di benefici diretti ed indiretti - autonomia energetica italiana. Sembra evidente nel testo corrente un compromesso tra l’iniziale impostazione del PiTESAI che voleva essere coerente con il calendario di decarbonizzazione dell’Ue (un irrealismo computazionale) e quella aliquota di partiti e popolazione ostile alle trivelle con la necessità di aumentare la produzione di energia fossile nazionale. Infatti le Regioni hanno dato via libera per l’evidenza negli ultimi mesi, oltre che del rischio disoccupazione, dell’emergenza dei costi energetici e del rischio prospettico di gap nelle forniture.
Secondo chi scrive il PiTESAI andrebbe sostituito da un Piano energetico nazionale di lungo termine (adattabile a nuove tecnologie) che liberalizzi al massimo le esplorazioni e lo sfruttamento di energia fossile, sia in terra sia in mare, e allo stesso tempo spinga con incentivi e de-burocratizzazione qualsiasi fonte di energia alternativa nonché i combustibili sintetici di nuova generazione, includendo i bio-carburanti estratti da rifiuti agricoli e di allevamento. Tale piano dovrebbe puntare ad una significativa (semi)autonomia energetica per i prossimi 30-40 anni, fino all’insediamento diffuso del nucleare a fusione, senza scorie e rischi. Tale analisi sconta il dissenso popolare ai reattori nucleari a scissione di terza generazione, con scorie pur poche e minimi rischi, nonché mini: è tecnologia supersicura - in Finlandia i Comuni competono tra loro per ospitare tali impianti - ma in Italia c’è una persistenza di irrazionalità e una sfiducia (giustificata) nelle istituzioni che suggerisce di “saltare” il nucleare a fissione e di darsi il tempo giusto per convincere la popolazione che quello a fusione è bingo. In tale ipotesi realistica l’Italia dovrà dipendere fino al 2050-60 da una sufficiente produzione di gas (arricchito da idrogeno). A occhio, calcolando che il fabbisogno nazionale è di circa 70 miliardi di metri cubi anno e che nel tempo il contributo delle energie alternative dovrebbe aumentare, la produzione nazionale di gas dovrebbe arrivare al 20-25% circa del fabbisogno stesso. Possibile? Le riserve ora accertate sono di 90 miliardi di metri cubi, ma l’analisi dei potenziali è molto superiore, dalle 12 alle 28 volte di più. Ovviamente per definire il potenziale bisognerebbe valutare i costi di estrazione e distribuzione. Per la seconda va considerato che i tubi ci sono già. Per la prima si può stimare che almeno un potenziale di 1.500 miliardi di metri cubi, con prevalenza nei fondali dell’Italia meridionale oltre all’Adriatico, possa essere estratto a costi sostenibili ed allo stesso tempo con profitto per gli investitori. Pertanto appare possibile.
Romperà l’Ue le scatole? Da un lato, ha da poco inserito il metano e il nucleare nella tassonomia compatibile con la de-carbonizzazione. Dall’altro, mantiene limitazioni penalizzanti per il pieno sfruttamento del gas. E materia molto tecnica, ma poiché l’Ue sta chiudendo un occhio sull’uso massivo del carbone in Germania, Polonia e altrove, una ben preparata azione di politica estera italiana non dovrebbe avere problemi a risolvere il problema. Quando? Dopo le prossime elezioni nel marzo 2023 quando i partiti eco-irrealistici e “no triv” verranno depotenziati dal voto di una popolazione esasperata dai costi energetici e dal luddismo. Ma ciò potrebbe implicare una postura italiana eco-divergente? No: comunque l’aumento del gas nazionale è ecocompatibile e fa da spalla alle energie alternative. Ma il punto è che quando il nucleare a fusione sarà diffuso la de-carbonizzazione avrà un picco tale da recuperare in 10 anni almeno 40 anni di de-carbonizzazione più lenta. Quindi se l’obiettivo è ridurre l’effetto serra entro un certo tempo, chi scrive ritiene che si possa raggiungerlo con un lungo tempo residuo di impiego del metano ed un salto nel nucleare a fusione. Si tenga conto, poi, che il mondo andrà a petrolio-gas fin oltre il 2100 e ciò genera la necessità di eco-adattamento con tanta energia a basso costo, possibile solo con il nucleare a fusione. In tale bozza di piano è rilevante la minimizzazione del conflitto tra ambiente e sviluppo che sarebbe tragico in caso di dipendenza eccessiva sia da tecnologie di energia alternative non ancora mature sia da importazioni condizionate da geopolitica ricattatoria. In conclusione: nell’immediato va bene il pur costipato e invecchiato PiTESAI, ma entro un anno va preparato un piano nazionale energetico più vasto nonché negoziato con l’Ue uno sfruttamento illimitato del potenziale metanifero naturale e sintetico italiano, anche utile all’Ue stessa.