In realtà a Glasgow, in mezzo al bla bla tradizionale, è emersa una novità con gande potenziale ecorealistico, e non solo: un’alleanza tra grandi istituzioni finanziarie che rappresentano circa il 40% del capitale privato mondiale e che sono pronte a mobilitare fino a ben 130mila miliardi di dollari, un’enormità, per finanziare le nuove ingegnerie climatiche, avendo già messo a disposizione 100 miliardi. Ma è credibile? Chi scrive segue l’evoluzione di questa alleanza, ora denominata Gfanz (Glasgow Financial Alliance for Net-Zero) fin dall’aprile scorso quando Mark Carney ha accettato dall’Onu la missione di organizzare la finanza privata a sostegno del suo impegno ambientale. Il canadese Carney, ex governatore stimatissimo della Banca d’Inghilterra, è nella lista dei banchieri centrali che hanno fatto scuola – per esempio e per i cultori del settore Stanley Fisher, e in questa lista trova posto anche Mario Draghi – con un’inclinazione molto marcata a supplire, sobriamente, ai gap della politica e, soprattutto, a spingere molto l’innovazione tecnologica. L’iniziativa ha avuto successo perché Carney è riuscito a mettere insieme il simbolo legittimante dell’Onu e il cartello finanziario più grande del pianeta. Dal punto di vista dell’Onu la necessità di questa mossa è lampante: con le tecnologie correnti e con la prevalenza di teorie ecolimitative che sostengono soluzioni illusorie non si va da alcuna parte, rendendo le iniziative Cop dei fora per sbalestrati, e quindi è arrivato il momento di ingaggiare forze vere, cioè la finanza e le supertecnologie. Ma dal punto di vista delle grandi banche - per esempio BofA, Santander, ecc. – e dei mega fondi di investimento c’è il rischio che si tratti solo di “green washing”, cioè di fare qualcosa di verde solo per marketing conformista? Pur ancora da dirsi con cautela, sembra di no: il capitale ha annusato la grande opportunità di mettere i soldi su cose nuove, essendoci ormai troppo denaro disponibile in relazione alle occasioni di investimento che sono quasi tutte roba vecchia e con potenziali di remunerazione mediocre, nell’ambito di un rischio latente di stagflazione sistemica. In sintesi, il capitalismo tecnologico vuole cambiare il mondo sia per salvarlo da rischi che si stanno attualizzando sia per fare più profitto. Fino a prova contraria, è roba seria.
Il punto: i fondi di investimento che raccolgono i soldi da investitori privati si aspettano una remunerazione significativa dal loro investimento stesso da poi distribuire ai loro clienti, per esempio fondi pensione, assicurazioni, ecc. Pertanto l’ingaggio del capitale privato rende obbligatorio il profitto e non solo l’intervento delle grandi banche pubbliche, per esempio la Banca mondiale e simili, per garanzie di mitigazione del rischio finanziario. Questo è ovviamente importante, ma più importante è la scelta di soluzioni tecnologiche che comportino sia ecosalvazione o ecosicurezza sia profitto per gli investimenti. Per inciso, la possibile transizione da ecopolitiche limitative semplici perché solo vietano tipi di attività – facendo prevalere l’ambiente sullo sviluppo – alle ecopolitiche attive basate su nuove tecnologie trasformative ad alta intensità di capitale ed innovazione, richiede una scelta di investimenti che soddisfi criteri capitalistici, oltre che di mitigazione dei possibili danni, ma anche geopolitici.
Per esempio, sono certamente remunerativi investimenti sul nuovo mini-nucleare a fissione con poche scorie e sul nucleare a fusione senza scorie, cosa che permetterebbe la fine della dipendenza dai combustibili fossili e del loro contributo all’effetto serra che (co)scalda il pianeta. Poiché ci sarà comunque un aumento delle temperature, sarà sia remunerativa sia salvifica la nuova bioingneria che rafforza piante e vegetali alimentari intervenendo sulla loro genetica. Per lo stesso motivo saranno remunerativi nuovi habitat con microclima (non contaminante) che li difende da caldo e freddo estremi nonché infrastrutture di ecoadattamento, tra cui quelle di desalinizzazione contro l’innalzamento del livello del mare e di generazione idrica contro siccità e possibili desertificazioni. Certamente sarà remunerativo e salvifico un nuovo sistema orbitale di osservazione della Terra per valutarne gli andamenti climatici in tempo reale e i connessi sistemi di intelligenza artificiale. Ma buona parte di queste nuove tecnologie, realizzabili con megainvestimenti privati sostenuti da garanzie pubbliche, sono nuovi fattori di potenza che è difficile possano essere condivisi saltando i confini geopolitici. Infatti, nel cartello Gfanz prevalgono istituzioni appartenenti alle democrazie. L’analisi macro, inoltre, mostra che la maggior parte del capitale di investimento risiede nelle democrazie stesse. Pertanto una prima sensazione strategica è che il consolidamento della finanza a sostegno dell’ecotech innovativo richieda un’iniziativa G7 +, cioè allargata a nazioni compatibili. Una stima personale molto preliminare porta ad ipotizzare che tale formula geopolitica e di capitale, se attuata, porti le democrazie ad una forte superiorità tecnologica sulle non democrazie nell’arco di 30-40 anni nonché ad includere le nazioni povere, come utenti, nel complesso democratico. In tale logica, ha priorità l’inclusione dell’India con un trattamento privilegiato affinché non sia tentata di seguire Cina e Russia nella loro prolungata dipendenza dai combustibili fossili.