L’economia italiana è esposta al rischio di un mutamento delle condizioni espansive nel 2022-23: restrizione monetaria e delle regole europee di bilancio. In gergo è definito come “policy shock” e c’è la possibilità che possa essere duplice, come due pugni ravvicinati. Quanto è realistico questo rischio e quali le contromisure? Il nucleo tecnico del governo è certamente consapevole del pericolo: da giugno il ministro dell’Economia ha iniziato a mettere limiti più pressanti all’indebitamento. Banca d’Italia sta aumentando i richiami pubblici ad usare più risorse fiscali maturate grazie al rimbalzo 2021 per la riduzione del debito. Questa comunicazione, in particolare, è un segnale che indica una tendenza restrittiva della Bce, indipendentemente dalle rassicurazioni che tende a dare. Lo scenario, al momento, probabilizza l’annullamento di tutte le misure straordinarie di politica monetaria entro il 2022 - non solo il Pepp, ma anche l’App - per intanto ridurre uno dei fattori inflazionistici sensibili alla politica monetaria. E che la Bce ritarderà al massimo l’aumento dei tassi. Ma sale la probabilità che debba farlo nel 2023, in particolare se la Fed iniziasse nell’estate prossima a rialzarli, considerando che l’euro debole è un moltiplicatore di inflazione importata. Da un lato, in sede Ue c’è una convergenza sul gradualizzare il ritorno all’ordine. Dall’altro, anche se si portasse il parametro del debito dal 60% al 100%, l’Italia subirebbe comunque pressioni dovendo rientrare da circa il 150% del Pil. Molti analisti ritengono che ci potrà essere un aggiustamento favorevole per via politica, tra cui il sostegno della Francia all’Italia e una posizione abbastanza accomodante della Germania a guida socialdemocratica. Ma, anche inserendo favori, comunque l’Italia resterà nazione fuori parametro: ciò verrà scontato dal mercato finanziario internazionale, pesando sul costo di rifinanziamento del debito e sulla valutazione di affidabilità del suo sistema economico come già visibile nell’impennata dello spread.
Probabilmente il rischio di caso peggiore verrà mitigato, ma non è una soluzione. Per consolidare la crescita, infatti, l’Italia ha bisogno di essere riconosciuta come “zona sicura” da parte del capitale d’investimento globale. Ci sta andando vicino grazie al segnale di forza industriale, di capacità vaccinale, ecc., ma manca il punto chiave: una politica di autorigore. Il suo costo sarebbe compensato in moltiplicazione dall’afflusso di capitali globali di investimento i cui gestori percepiscono che si sta riducendo il numero di zone sicure nel mondo.