La temperatura dell’Artico sta salendo e ciò scalda anche lo scenario geopolitico e geoeconomico perché una regione finora impervia per il ghiaccio si è aperta alle rotte ed allo sfruttamento dei suoi territori. Da più di un decennio il fenomeno è oggetto di analisi strategiche da parte di America, Russia e Cina. Negli ultimi 2-3 anni c’è stata un’accelerazione delle posizioni che anticipano una volontà di dominio della zona, in particolare da parte della Cina, che si è dichiarata nazione “quasi artica” e sta predisponendo rotte commerciali per accorciare il tragitto verso i mercati atlantici, e dalla Russia che la interpreta, comunicandolo con fatti di presidio militare e industriale, come estensione naturale dei suoi diritti sovrani di sfruttamento. Al riguardo c’è una crescente collaborazione tra Mosca e Pechino. Ciò stimola un ingaggio della Nato per il presidio di un’area che è tanto importante quanto l’Indo-Pacifico non solo per il contenimento del potere russo, ma anche di quello navale cinese che vede la rotta artica come possibilità di “sgaiattolare” dalla cintura di contenimento organizzata dagli americani, dal Giappone fino a Taiwan. Questa è una priorità per Pechino, che ha costruito basi navali in Cambogia, Ceylon, Pakistan, Gibuti e sta tentando in Birmania, ma limitata da stretti come quello della Malacca e dal presidio marino dell’India rafforzato da quello statunitense, Giappone, Australia, ecc. Quindi impedirle una presenza artica diretta, che per altro anche la Russia non vorrebbe per mantenere la propria forza contrattuale, è una missione dell’Alleanza atlantica. Ma c’è molto di più: la Groenlandia ha i maggiori giacimenti di terre rare – metalli essenziali per i nuovi sistemi tecnologici – del pianeta e la possibilità di sfruttarli da parte delle democrazie romperebbe il monopolio ricattante della Cina. Per inciso, nel 2018 Donald Trump tentò di comprare l’enorme isola, non riuscendoci, dalla Danimarca che ne è formalmente proprietaria, pur questa dal 2009 con un ampio spazio di autogoverno. Inoltre le riserve di petrolio e gas dell’Artico sono immense e già oggetto di studi di investimento da parte della Russia, che però ha pochi soldi, cosa che incentiva la Cina, pur con meno soldi che nel passato perché deve coprire i buchi finanziari interni, a offrire risorse a Mosca in cambio di convergenza. Il tema artico si sta scaldando a tal punto da finalmente costringere anche l’Ue a definire una politica per la regione e a dichiararsi “potere artico diretto” perché i suoi membri Ue, Svezia e Finlandia, nonché Danimarca, via il possesso pur lasco della Groenlandia (che ha rifiutato l’adesione all’Ue), nonché gli associati esterni all’Ue stessa, Norvegia e Islanda, sono artici.
Ma chi scrive ha notato una stranezza nel comunicato Ue sull’Artico. Da un lato, molto morbido per lo più con enfasi sulla collaborazione ambientale (lo scioglimento del permafrost siberiano, e non solo, emette enormi quantità di metano che è un gas serra), sull’astensione da operazioni estrattive con rischio di contaminazione, sulla tutela dei transiti delle renne, ecc. Dall’altro, la Ue ha deciso di creare un consolato a Nuuk, capitale dell’amministrazione autonoma della Groenlandia, con il chiaro intento di stabilire relazioni convergenti con i 60mila Inuit locali allo scopo, pur silenziato, di conquistarne il consenso per lo sfruttamento delle “terre rare”. Questa, oltre allo scenario generale, è roba grossa che stimola la definizione dell’interesse nazionale italiano, al momento non precisato a sufficienza per l’area artica.
Interessi italiani via Ue e quindi postura di pressione sull’Ue stessa. Certamente accesso per le nostre industrie allo sfruttamento (vitale) delle terre rare, corroborato da un’appendice che dia all’Italia più spazio, finanziabile con denaro comunitario, per porre sul suo territorio megafabbriche di batterie e dintorni in vista della tendenza crescente all’elettrificazione diffusa, per esempio le auto. Al momento c’è un privilegio di Francia e Germania. In cambio l’Italia potrebbe definire un suo potenziale di contributo per l’azione Ue nell’Artico, nonché un ingaggio più marcato ed eurocoordinato in missioni Nato di presidio, mediazioni con l’America (e Canada) per una convergenza artica fluida, ecc.
Questa convergenza rinforzata con l’Ue e Nato è una condizione per l’esercizio di interessi nazionali particolari. Cantieristica: navi militari e di trasporto a cui viene aggiunta la capacità di operare in mari ghiacciati (l’artico è in scioglimento, ma nei mesi invernali righiaccia) per non lasciare il monopolio all’industria russa e offrire tecnologia alle marine alleate. Impiantistica in zone impervie e delicate dal punto di vista ambientale: le aziende italiane hanno grande reputazione in materia e, con il sostegno della politica, possono essere ingaggiate in operazioni cooperative di estrazione ambientalmente sicura, Eni e Saipem avanguardie mondiali e già ingaggiate, per esempio, in Norvegia. Cooperazioni bilaterali industriali rafforzate con i Paesi nordici, ecc.
Ma una rotta che dall’Asia salta Suez e favorisce i porti olandesi e tedeschi danneggia quelli italiani? In prospettiva, pur possibile attutire il danno, è probabile. In attesa di uno studio tecnico, però, già questo rischio è un motivo che deve spingere l’Italia a cercare compensazioni in altri settori, come qui abbozzato. A proposito, tra i funzionari che l’Ue ha scelto per insediarsi nel consolato di Nuuk, quanti sono italiani?